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Ieri, vigilia della nuova fiera internazionale in calendario (“Linea-pelle”), potevo lavorare in deroga al mio turno di riposo, limitatamente alla fascia oraria dodici/ventiquattro.
L’ho fatto volentieri, per recuperare un po’ di lavoro perso per necessità o virtù nei giorni pasquali, e, ancor più volentieri, per concedermi così una netta variazione alla scansione temporale delle mie giornate, ben sapendo quanto giovi questo genere di deragliamento dalle abitudini.
Occhiali da sole graduati al posto di quelli da vista, alle tredici varco la porta del garage.
Mi accolgono campi inondati da una splendida, trionfante, disarmante luce di sole di metà aprile.
Una celebrazione silenziosa ed imponente.
Improvvise distese di margherite da mozzare il fiato, alberi ornati di fucsia orgogliosi della loro esplosiva bellezza.
Dentro l’anima un sentimento noto, di inadeguatezza a tutto questo, di trovarmi nel bel mezzo di una festa senza l’abito adatto.
Come di essere un superstite al mio stesso passato, all’accumularsi degli anni, degli inverni, delle tempeste che, in misura minore o maggiore, si abbattono inevitabilmente sulla rotta di chi naviga sul proprio fragile vascello nell’oceano della vita.
Poi è la città, il centro storico, ad accogliermi, con i morbidi chiaroscuri dei suoi portici che giocano con la stabilità di questa meravigliosa luce solare, mentre l’immobilità incantata dei campi è ora sostituita dal movimento, costante ma non febbrile, non caotico, dei traffici urbani.
Posso guardarmi intorno con calma: a dispetto dell’incipiente fiera le attese ai posteggi sono lunghe, il lavoro non abbonda in queste ore pomeridiane.
Come sempre la radio mi fa compagnia, fra le frequenze di Radio2 e di Radio Popolare.
E’ quest’ultima che dà voce ai superstiti stranieri di Onna, la frazione dell’Aquila rasa al suolo; e dà voce all’ipotesi che molti irregolari abbiano terminato la loro esistenza sotto le macerie nell’oblio totale, senza neanche essere contati nel numero delle vittime, ipotesi già diffusa da alcuni siti internet (fra cui, tempestivo come sempre, quello “Senza Nome”).
Un giovane marocchino risponde che no, loro si sono tutti ritrovati, nessuno manca all’appello. Conosco bene l’inflessione araba di giovani come questo, ne trasporto tutti i giorni, ma sentirla alternata all’accento abruzzese fa un effetto quasi tragicomico.
Se la sua testimonianza è tutto sommato incoraggiante, molto più commovente risulta quella di una badante romena, intervistata subito dopo. Dice che dovrà rimpatriare, che ormai qui non c’è più lavoro, fra morti e case crollate. Sembra dotata di un grande autocontrollo mentre offre la sua testimonianza, ma quando poi ricorda con gratitudine quanti l’hanno accolta e trattata bene in quella piccola comunità, la voce le si spezza improvvisamente come in un’improvvisa inarrestabile ondata di dolore.
Il dolore. Dall’Abruzzo si è propagato, con quella rapida “onda d’urto” di cui si diceva, a tutti noi spettatori impotenti ma solidali.
Tuttavia sul dolore non si ragiona mai abbastanza; forse le cose andrebbero diversamente, se così fosse.
La tragica ribalta d’Abruzzo ha fatto passare sotto silenzio, ancora una volta, l’anniversario di un genocidio avvenuto quindici anni fa nell’indifferenza del mondo, un mondo che non credo abbia ancora maturato la piena coscienza di quanto avvenuto in quei giorni.
Perchè lo sterminio di un milione di persone sfugge alla capacità di immaginare e di comprendere. Tanto più se il teatro di tutto ciò è in quella fetta di mondo che non conta, chiamata Africa. In una nazione che non conta, chiamata Rwanda.
Beppe Grillo ha pubblicato la testimonianza di una superstite, di quella pagina di storia che ci scivolò accanto quindici anni fa. E’ una madre che perse i suoi tre figli, e da allora cercò di ridare un senso alla propria vita adottando molti altri bambini scampati alla carneficina, ed ora, dal Belgio, denunciando i crimini che ancora, come per una fatale e tragica eredità, vengono ancora commessi nel suo Paese.
Credo sia importante ascoltare e diffondere testimonianze ed appelli come questo, che ci aiutano a ragionare sul dolore in una prospettiva globale, e magari anche futura.
L’impegno alla guida, il contatto con i clienti della giornata, col passare delle ore finiscono per distogliermi dalla contemplazione della splendida e calda giornata primaverile, così come da queste considerazioni.
Ma prima del tramonto, sopra la strada che percorro, abbastanza vicini, li sento, li vedo, giocosi, festosi, inseguirsi, e mi sembrano quasi piccoli, fragili, rispetto alle attese; al termine di un’impegnativa migrazione da quello stesso continente africano, sono tornati a trovarci anche quest’anno i rondoni.
Li aspettavo ormai da diversi giorni, ad aprire con il loro arrivo, e i loro nuovi gridi, la stagione più straordinaria, incantata e sospesa dell’anno.
Bentornati.
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Immagine da:
http://www.sicf.it/Articoli/art_val_varaita.shtml
E’ già una settimana circa che dalle mie parti abbiamo risalutato il popolo migratore. Dovrebbe esserci una cerimonia stagionale per celebrare l’avvenimento.
Contribuisco al bestiario del blog con una quaglia stremata, che qualche primavera fa si rifugiò sul mio terrazzo. Era una esplosione di bruni e mezze tinte, pareva di esser davanti ad una foto nitida confrontandola alle livree spente degli esemplari d’allevamento.
In barba al titolo un po’ tramortito, questo post, grazie ai commenti, si è piacevolmente riempito di colori, di versi, e di schiamazzi di natura animale, ornitologica in particolare.
Davvero sarebbe bello festeggiare l’arrivo dei migratori: sarebbe un segno di riconciliazione con la natura, e di inchino di fronte a fenomeni di una forza vitale davvero sorprendente.
Qui abbiamo gazze, usignoli, passerotti e certi uccellini con il mantello grigio e il petto verde, oltre a gatti, cani, zecche, biscie e umani. Uno zoo intero. Per il resto un pensiero alla gente d’Abbruzzo.
Ma che meraviglioso quadretto, e che concerto polifonico, quasi da vecchia fattoria – ia – ia – ò !
Certo il loro nido difficilmente crolla, ad ennesima dimostrazione che l’uomo riesce ad essere quasi sempre il peggiore degli animali.
Ma sì che ci sono le vedo volare ma diciamo lonane, invece tortore e merli hanno proprio i nidi vicinoo che le vediamo dal poggiolo, quando covano le uova, poi quando nascono i piccoli e vengono a portare il cibo becco a becco, poi vediamo le prime prove di volo ecc. ecc. insomma fanno parte della famiglia giusto? Baci.
Sai che ti dico? Che siete proprio fortunati. Ricordo con molta nostalgia, come uno dei momenti più magici della mia infanzia, le “prove di volo” dei nostri canarini.
Allora saluti e baci a tutta la famiglia Miss, pennuti compresi !
Io mi devo accontentare delle tortore e dei merli.
Bel post.
Ciao a presto.
Ma ne sei proprio sicura ? Neanche una rondine a Genova ?
Ciao Miss e grazie.