Una notte dopo le feste

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Come una marea, il periodo che dedico al sonno sta invadendo ogni giorno di più quello della luce diurna; non si tratta di un ribaltamento fra la notte e il dì, ma di una vera e propria alluvione dormitoria, tempi infiniti, sempre più lunghi, a cui mi concedo senza scrupoli per i segnali di grande benessere che alla fine mi genera, e grazie ad una dolcissima assenza di impegni extralavorativi in queste tranquille e smorte settimane post-festive.

Inoltre il venerdì (come il sabato) si può cominciare a lavorare più tardi, evitando il traffico particolarmente caotico dell’ora di punta e sfruttando più a lungo quel po’ di animazione cittadina notturna, sempre superiore rispetto alle desolate notti precedenti.

Erano già passate le otto, ieri sera, quando ho cominciato.
E le strade della città già presentavano una strana atmosfera, come di vigile disarmo, data da tutte le luminarie spente ancora da togliere, ogni anno le montano prima e le smontano più tardi, e dallo scarso traffico veicolare, che lasciava però percepire i primi segni di quell’animazione da inizio week-end che dicevo.
Grande rilassamento nervoso, strade libere, discreta richiesta di servizio: le condizioni ideali per lavorare.

Viene presto l’ora della prima decisione: alle dieci chiuderà la mensa della ferrovia, mancano pochi minuti ma provo a raggiungerla lo stesso; l’appetito è poco, a causa del mio odierno casalingo ‘brunch’, cioè primo pasto, consumato in un orario più vicino a quello del the che a quello del caffelatte. Per i sei euro della nostra tariffa convenzionata vale la pena andarci anche solo per mangiare un’insalata e magari scegliere per secondo una mozzarella confezionata da portarsi a casa.

Sono proprio sul filo di lana; qualche inutile beffardo semaforo rosso di troppo mi fa cambiare idea, anche perchè entrare alle dieci meno cinque significherebbe subire il fiato sul collo del personale che ha fretta di chiudere dopo quattro ore di servizio continuativo.
La rinuncia ad affrettarmi mi dà un’altra iniezione di relax: mi abbandono ancora un po’, passivamente, al flusso di lavoro.

Che, come spesso succede, conosce di lì a non molto, intorno intorno alle dieci e mezza, un provvisorio calo.
E’ il momento buono per lo stacco. Provo a puntare su un bistrot di cui ho sentito la pubblicità per radio, che sembra specializzato in cucina biologica e vegetariana, Zenzero, si chiama, in via Fratelli Rosselli.
Miracolosamente parcheggio a due passi dalla ‘Salara’, locale notturno per gente alternativa ed eccentrica, alcune sere settimanali dedicato agli omosessuali; a quest’ora non c’è ancora nessuno in giro nei dintorni.
Cammino accanto all’antico magazzino del sale e al porto canale, di recente ristrutturati e ben illuminati; noto con una certa sorpresa il corso d’acqua del canale di Reno, che se ne sta interrato per quasi tutto il resto del suo itinerario cittadino; c’è spazio, tranquillità, quiete; anche il freddo sembra essersi uniformato a quel diffuso stato di vigile disarmo: quattro, cinque gradi, fastidioso ma non troppo.

Raggiungo lo Zenzero: non è grande né vistoso; tavolini abbastanza frequentati all’interno, un’atmosfera discretamente raffinata; guardo il menu con i prezzi, correttamente esposto sulla porta d’entrata. E scelgo di non entrare: troppo stanziale, troppo ristorante. Nel tornare verso la Cavallona parcheggiata, decido che punterò sulla ‘Clorofilla’, l’ormai storico pub vegetariano di Strada Maggiore, dove non metto piede da parecchio tempo, ma che stasera fa proprio al caso mio.

L’operazione di parcheggio questa volta è proibitiva; comincio a girare per strade e stradine come un insetto impazzito, poi esco da Porta Maggiore, lungo via Mazzini fino a trovare, finalmente, uno spazio un po’ di fortuna ma sufficiente.
Sotto il lungo portico degli Alemanni, illuminato da qualche tenue fanale e dalle vetrine dei negozi dalla saracinesca abbassata, non passa quasi nessuno; respiro ancora una volta la gradevole atmosfera vaga e stranita di questa serata prefestiva ma, direi soprattutto, antifestiva.
E, ancora una volta, cambio destinazione: il bar qui appena fuori porta Maggiore mi va più che bene.
E’ un posto che amo, uno dei pochi bar aperti fino a tarda notte, e per questo frequentato da personaggi un po’ di frontiera, come suol dirsi ‘border-line’, italiani e stranieri.

Trattenendo per gli ultimi momenti lo stimolo imperioso della pipì, entro.
C’è la solita signora di stampo felliniano, con scollatura regolarmente aperta sull’immenso seno; un paio di ragazzi forse romeni, forse albanesi, un po’ defilati rispetto al banco, nei pressi dei giochi elettronici.
Do un occhiata alla vetrinetta: “Non ci sono quelle pastine secche con le mandorle?”
“No, finite”.
Do un’altra occhiata, e finisco per ordinare un calzone agli spinaci, che emana grasso (più o meno idrogenato) solo a guardarlo.
Non faccio in tempo a chiederlo che già me lo porge. Allora le chiedo di scaldarmelo e di prepararmi un the al limone, poi finalmente posso correre al gabinetto.

Quando torno al banco il the è già pronto.
Mentre schiaccio la fettina di limone con il cucchiaino, ascolto il dialogo fra due tipi sulla mezza età, dall’accento e dall’aspetto iper-cittadino, nel frattempo piovuti qui chissà da dove, forse dal non lontano Ospedale Sant’Orsola.
Raccontano di un ritardo nella chiamata al 118: quando è arrivata l’ambulanza il tipo se ne era già andato a miglior vita.
Sfornato dal microonde il calzone sembra ancora più unto: lo addento con trasgressiva voluttà, e che il dio della digestione mi assista.

Presto la mia sosta ha termine e vado ad affrontare le nuove più o meno gradite avventure che mi offrirà la notte di lavoro.
Due ragazze, graziose, educate, profumate ma non troppo, chiedono di andare al Ruvido, la discoteca dei più giovani.
Fanno cenno di gradire molto la canzone che trasmette la radio in quel momento, poi noto che una delle due, caschetto e capelli lisci sul viso affusolato, cerca di studiarmi attraverso lo specchietto, per decidere se sono interessante o no. Chissà; meglio che non sappia la mia età, con tutta probabilità superiore a quella dei suoi genitori.

Poi avrò il piacere di battibeccare con un collega per il mio arrivo un po’ garibaldino dentro un posteggio, subito prima che ci si fiondasse lui, con guida da polizia americana, e, a ruota, da un altro che lo tallonava. Ho cercato di mostrargli la mia buona fede, gli ho anche detto che gli cedevo il posto, ma ha conservato la sua patetica grinta rabbiosa. E allora senza dire niente, quasi sgommando, ho mollato la presa, e li ho lasciati entrambi in quell’angolo della città, augurando in cuor mio al grinta di passare lì, fermo, tutta la notte.

Poi alcune corse con clienti anonimi, quelli che “non vedi più neanche con gli occhiali”, citando la famosa canzone d’origine francese ‘Albergo a ore‘.

Fino a quella inesorabilmente lunga, complessa, fastidiosa, alla fine sottopagata, a tappe, e con relativi periodi di attesa del mio cliente, fra pizzerie in chiusura, trafficanti di cocaina, campi nomadi.
Loquace, accento strano, accetterò di chiacchierare, e così apprenderò che la cocaina è spacciata da Marocchini, mentre l’eroina da Tunisini.
A differenza della moretta di prima, lui mi chiederà l’età, e quasi si offenderà quando gliela dico, pregandomi di non prenderlo in giro.
Poi si metterà quasi a piangere, dicendo che è schiavo della droga, e, platealmente, che si vergogna nei confronti di suo figlio di pochi mesi.
Alla mia domanda se non ci sono comunità di recupero in città, che no, che anzi quando è stato in carcere per qualche mese gli hanno chiesto se si faceva anche di eroina e lui no mai, e se fumasse spinelli, no solo dieci anni fa, e che erano stati capaci solo di proporgli trenta grammi di metadone, quelli là.
Dopo l’acquisto nella solita ‘centrale’ di via della Manifattura, e una volta ripartiti, esaminerà la merce, e poi si metterà ad inveire contro quei bastardi che gli hanno rifilato dello zucchero.
E poi ancora a piagnucolare, che solo Gesù può aiutarlo a smettere.

Ho pensato anch’io la stessa cosa, circa quella lunghissima corsa a tappe. E Gesù alla fine mi ha ascoltato, anche se mi sono dovuto accontentare dei soli venti euro che mi aveva dato, tranquillizzandomi alquanto, come acconto prima della prima sosta.

Ma la libertà di potermene tornare a casa, a quel punto, non aveva prezzo.
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Immagine tratta da: http://commons.wikimedia.org/wiki/Bologna?uselang=fr

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17 risposte a Una notte dopo le feste

  1. missss ha detto:

    Quando hai un attimo passa a guazzabugliare anche te ok????
    (si si è un invito in piena regola) misssss

  2. iolosoxchecero ha detto:

    mi piacciono molto i racconti legati al tuo lavoro. Costituiscono, per me curiosa di tutto, una finestra su un mondo che non conosco. Un mondo che ha il suo fascino e il suo lato oscuro. Però ti leggo così sereno nell’affrontarlo che mi piacerebbe un giorno fare un giro sul tuo taxi. Dovessi capitare, ti faccio dei segnali di fumo sul blog, così mi scarrozzi per le vie delle città e, il giorno dopo, potrò trovare un post che parla (tra le altre cose) di una moretta, romana d’adozione, in trasferta! P.S. i tuoi racconti sono utili anche per le dettagliate indicazioni culinarie…saprò pure dove andare a mangiare!

    • Franz ha detto:

      Non è la prima volta, cara Iolosò, che i miei racconti di taxi suscitano particolare curiosità ed interesse, tanto che mi faccio scrupolo di tornare più o meno regolarmente sul ‘genere’, anche se a volte tenderei, come dicevo, a ‘non vederli più, neanche con gli occhiali’…
      Certo un racconto con un’ospite come te diventerebbe un autentico best-seller, mentre tu, sul tuo blog, potresti raccontare quali ottimi posticini ti ho segnalato per la cena; in effetti, le frequenti indicazioni dei clienti fanno di ogni tassista notturno una ‘Guida Michelin’ vivente !

      Un grazie per la visita, da parte di una blogger davvero gettonatissima.

  3. missss ha detto:

    A me piace scrivere tè e non the e silenzio!!!!!

  4. solindue ha detto:

    Dear Franz,
    adoro il tè quindi non concentrerò il mio commento sul connubio tè calzone, bensì sui tuoi bisogni fisici.
    Intendo il tuo bisogno di sonno.
    Alla pari del tè e di molte altre cose, amo molto dormire. Quando ero piccola dormivo in camera con i miei e ricordo mi padre la sera stanco dal lavoro che spesso infilandosi sotto le coperte esclamava “che meraviglia! Ma chi avrà inventato il letto?!?”.
    Temo che a nessuno spetti il Nobel per una tale invenzione, perchè immagino sia solo l’evoluzione di semplici giacigli, ma in effetti l’esclamazione rappresenta bene il piacere che si prova nel distendersi, o restare la mattina d’inverno a grogiolarsi fra le coperte calde. Avere come sembra sia per te, il tempo per riposarsi tanto quanto il nostro fisico richiede è un grande privilegio. ottimo per il fisico e per la mente…immagino sia per questo – oltre alla magica bevanda di cui sopra – se riesci a restare tranquillo e sereno fino all’ultimo cliente serale in perfetto stile Super-Franz!!
    Abbraccio e buona serata.

    p.s. questa volta ce l’ho messa tutta a non andare fuori tema … speriamo … 🙂

    • Franz ha detto:

      Non posso che condividere, my dear Alone: la mia passione per l’attività dormitoria è antica, ed è proprio vero anche quello che dici sull’importanza di poter evitare di limitarne i tempi.
      Unito poi alle bevande magiche dà effetti straordinari…

      Abbraccio ricambiato e una buona settimana a te.

      p.s.: sei restata in tema, certo, ma quando ho letto che “avresti concentrato il commento sui miei bisogni fisici”, ho pensato con spavento che volessi parlare della mia pipì… 😀

  5. alanford50 ha detto:

    Come sempre è un grande piacere leggere i tuoi post, leggere la tranquillità con cui affronti il mondo ed i suoi stravaganti abitanti, è vero che se ne hai fatto il tuo mestiere sicuramente non puoi permetterti la paura di questa variegata umanità, allora faccio il paragone con quella che è stata la mia vita lavorativa, vita che anche tu ben conosci per averla in passato vissuta per uno spazio di tempo, insomma la mia è stata una vita sempre dietro la medesima scrivania davanti ad un video ed una tastiera a far funzionare un marchingegno pieno di lucette all’apparenza inutili, insomma avventura e contatti umani a livello sottozero, al massimo lo scontro con questo o quel personaggio che del mio lavoro non ne sapevano proprio nulla e probabilmente non molto anche del loro, ma forti della loro posizione imponevano scelte quasi sempre infelici, come sai il nostro comune lavoro è sempre stato poco compreso dai più.

    Non posso che associarmi alla domanda della Misssss, ma come fai a bere il the mangiando il calzone? ahahah, lo credo che dopo nulla ti può più spaventare.

    Ciaooo neh! alla prox.

    • Franz ha detto:

      Per le considerazioni sugli stress lavorativi a cui fai cenno, e che in passato ho conosciuto fin troppo bene, ti rimando a quanto ho scritto in risposta a Silvana.

      Invece devo rivelarti la funzione speciale del the caldo al limone.
      Grazie a quella bevanda, il pigro e sonnolento Francesco, che vaga normalmente fra letto e computer, diventa ‘Super-Franz’, un super-eroe capace di mirabolanti avventure e di missioni impossibili, come ad esempio quella di portare un tossicodipendente a comprare dello zucchero…

      Super Saluti !

  6. missss ha detto:

    Sono sul mio blog: clicco Francesco. Ecco, si apre, sentimenti contrastanti: voglio o non voglio un nuovo ma lunghissimo post? Non so darmi risposta, ma ecco che il blog si apre: EVVVAI nuovo post, si sono contenta.
    Scendo lentamente ahhhhh è lungo e ora che faccio?
    Inizio a leggere, vado, vado, leggo, leggo, riga dopo riga e puffff sono in fondo!!!!!!!! Forte Franz, mi hai fatto sorridere, te sempre tutto serio e composto hai parlato della pipì???? E quel calzone poi l’hai digerito? Ma come fai a bere il tè mangiando? Prenditi un bicchierino di bianco e un pò d’acqua frizzante magari, che dici? La prossima volta però è meglio il primo ristorantino se fai tardi in mensa, giusto?
    Notte…..

    • Franz ha detto:

      Ebbene sì, anche al serioso Franz ogni tanto scappa la pipì… e lo racconta anche ! E’ proprio vero: non c’è più religione.
      Quanto al the, ho svelato nella risposta ad Alanford la sua preziosa funzione di fornirmi super-poteri, compreso quello super-digestivo !
      E poi non dà problemi con il test alcoolometrico…

      Bye bye, baci.

  7. silvanascricci ha detto:

    Caro Franz
    a leggere i tuoi racconti un po’ ti invidio.
    Incontri tanta e varia umanità, più o meno gradevole, più o meno strana ma, almeno sempre diversa che crea spunti, divagazioni e racconti.
    Io incontro sempre la stessa tipologia di personaggi, almeno sul lavoro, professori con la puzza sotto il naso, docenti universitari, malati disperati e disperanti, medici e tecnici disoccupati che cercano con affanno un posto da co.co.co. sottopagato, politici che raramente sanno quello di cui parlano, ma parlano e sproloquiano tanto.

    Ma sul serio tu vai a mangiare al clorofilla? mi ci hanno trascinato una volta che è valsa per due: la prima ed ultima.

    Ciao
    S.wordpress stats plugin

    • Franz ha detto:

      Il tuo rapporto con il lavoro, cara Silvana, è probabilmente quello più diffuso, ovviamente fra i fortunati che hanno un lavoro, o hanno …ancora un lavoro: si baratta un numero enorme di ore di vita, nelle quali si cerca, chi più chi meno, di impegnarsi, in cambio di uno stipendio.
      Da parte mia ho trovato il modo, non importa quanto per capacità quanto per fortuna, di sfuggire un po’ a questa logica, almeno per ciò che riguarda la possibilità di dosare i tempi di lavoro in funzione delle necessità di reddito, che, per un singolo che conduce una vita decisamente sobria, in fondo sono molto basse.
      Non ho suggerimenti da darti, solo l’augurio di non immolare troppa parte di te stessa sull’altare di un’attività non del tutto remunerativa, ovviamente sul piano umano.
      E un altro (comunque superfluo): di non accettare più inviti a cena alla ‘Clorofilla’, e provare invece quel locale fuori dai pasti, per una fetta di torta o una tisana in buona compagnia.

      Salutone e abbraccio.

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