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“Red Room, okay, in via Calzoni”, ribatto, poi aggiungo al mio giovane interlocutore: “mi sembra strano andare da quelle parti alle otto di sera”.
“Eh, sono quello che deve preparare e aprire il locale, il primo ad entrarci e l’ultimo ad uscire”.
“Red Room… Ho scoperto giusto ieri quel nome, deve averlo cambiato da poco, no?”.
“Mah, sarà già un anno”.
“Ma dai. Certo quelli che non vogliono sapere di cambiarlo, nè il nome nè la gestione, sembrerebbero le altre due discoteche di via Calzoni, il Kindergarten e il Ruvido. Chissà se sono aperte stasera”.
“Sì tutte e tre stasera, e ci sono delle feste dappertutto, e anche al Link”.
“E vai con la movida, allora. Mi dai delle ottime notizie !”.
Lo sento poi parlare al telefono:
“Fra un’ora apre il bar, ho preso un taxi, con l’autobus non ce la facevo. No, non ho fame, vorrei solo dormire…”.
Quando lo lascio davanti al locale buio, e lo saluto, con la soliderietà che si è instaurata fra due persone lontane d’età, ma accomunate dal lavoro notturno e da una non così frequente gentilezza nei modi, immagino il fluire di ragazzi e ragazze che per molte ore ravviveranno questa strada, il grande autofurgone-chiosco dei panini e delle piadine con le abbaglianti luci accese di fronte, e immagino lui, poco prima dell’alba, intontito dalla stanchezza, chiamare un altro taxi per tornare a casa.
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C’era ancora luce in cielo, avevo cominciato a lavorare alle cinque, dopo aver ritirato la Cavallona dalla prima obbligatoria revisione annuale.
La chiamata mi arriva mentre percorro i viali di circonvallazione, già in sofferenza per l’incipente ora di punta, proprio da pochi metri di distanza dal punto in cui sto transitando. Do in risposta il tempo minimo possibile, due minuti, ma in pochi secondi sono a destinazione e cerco un varco di fortuna fra le auto parcheggiate selvaggiamente.
Non avevo fatto caso, nelle note, al nome di battesimo, abbastanza inconfondibile, ed indicato con semplicità proprio in quanto cliente più che abituale.
Lo riconosco quando lo vedo: è la nostra ormai vecchia conoscenza, il Catarroso. Sta fumando una sigaretta, la deve aver appena accesa non aspettandosi un mio arrivo così repentino; apre la portiera ma non sale, e incurante della posizione non proprio felice della vettura, aspira avidamente, ripetutamente, a lungo, il corpo un po’ curvato in avanti, una boccata dopo l’altra, quel consolatorio tabacco racchiuso in una sottile cartina. Poi si decide finalmente a salire.
“Buongiorno, signor S. come andiamo?”
“Abbastanza bene”, risponde lentamente, gutturalmente, catarrosamente.
“La porto a casa o in centro?”
“No, no, mi porti pure a casa”, scandisce sillaba dopo sillaba; e inspira a fondo, e tossisce.
Qualche minuto dopo, con lo stesso tono, mi fa un’osservazione:
“Perchè non è andato per piazza Mickiewicz? Qui sulla preferenziale siamo finiti dietro l’autobus”.
“Ha ragione, delle volte fare la strada più corta è uno sbaglio”, gli rispondo, e lascio trasparire il mio sincero dispiacere.
Il pachidermico mezzo pubblico deve girare per via della Repubblica tagliando il flusso di traffico contrario, e così, quando ci riesce, è già scattato per me un nuovo rosso del semaforo. Lungo, statico, inesorabile, eterno.
Soffre l’attesa anche il mio ospite, che però non se la prende con me, ma con l’entità semaforica, lasciandosi andare poi, con un certo volo pindarico, ad appassionate considerazioni millenaristiche sulla fine del mondo ormai prossima.
Più avanti, verso il quartiere Pilastro, recupero un po’, con la mia guida normalmente piuttosto veloce, quando le strade me lo permettono.
Mi dà indicazioni, ma lo interrompo: “La conosco bene la strada, sono già venuto tante volte da lei”.
“E’ vero, è vero”, mi fa, ma poi, in prossimità del suo chilometrico condominio, mi dà ulteriori indicazioni sul punto da raggiungere.
E poi alla fine, nel pagare, arrotonda molto generosamente: “Il resto è per lei”, mi dice con il suo vocione cavernoso, prima di cominciare la non agilissima operazione di discesa.
“Ma grazie, signor S., berrò i prossimi caffè alla sua salute!”
“Ecco, faccia così, arrivederla”, e si allontana lento, verso il suo portone, la sua casa, la sua mamma.
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Via Quarto di Sopra, sembra quasi gergo da macellai, e il numero, un numero basso, si direbbe all’inizio della strada; la chiamata mi arriva dopo la mezzanotte, e, contrariamente alla storia precedente, da un punto lontanissimo.
A quest’ora le vie sono scorrevoli, e l’indirizzo sembra facile: l’accetto, otto minuti.
E’ bello lanciarsi al galoppo con la docile Cavalla e il suo silenzioso potente motore a metano. Sentire le ruote che scorrono. Procedere veloci, verso l’ignoto, nella notte.
E’ l’aspetto più bello ed entusiasmante del mio lavoro, penso fra me e me. Certo, anche il contatto con la gente è bello, mi tiene vivo, ma il più delle volte bisogna stare sulla difensiva, il più delle volte è fonte più di fastidio che di piacere.
In men che non si dica percorro le strade che mi separano dal semaforo all’angolo con la via cercata, quasi al confine con il comune di Granarolo. Quando la sospirata tonda luce verde finalmente si accende, giro a destra e comincio ad aguzzare la vista in cerca del numero. Pochi edifici nella campagna che tende ad imporsi, e tutti senza uno straccio di numero civico, maledetti loro e tutte le giunte comunali d’Italia.
Laggiù la chiesetta, che si avvicina rapida. E’ bella ed irreale, così illuminata nel buio della campagna intorno. Immagino che la chiamata provenga da lì, mi sembra di ricordare che già una volta portai qualcuno nell’edificio attiguo.
Dal cortile-parcheggio illuminato, e protetto da una sbarra automatica, vedo uscire un’automobile, mentre un’altra, all’interno, ha i fari accesi. Bene, penso, c’è del movimento, sarà sicuramente lì.
Ma una volta davanti alla sbarra chiusa non vedo più anima viva.
Sopraggiunge un’automobile in senso opposto e mi si ferma accanto. Abbasso il finestrino e interrogo impulsivamente il giovane alla guida:
“Sto cercando il numero n, sai mica dov’è?”
“No, proprio no.”
“Niente, proverò a vedere più avanti” e faccio per avviarmi.
“Guardi che ero io che mi ero fermato per chiedere un’informazione”, mi fa un po’ stupefatto. E mi viene da ridere.
Poi, mentre cerco di spiegare a lui la strada che deve fare, arriva un’altra vettura da dietro, mannaggia tutte adesso, ed è impaziente, e lampeggia coi fari. Non mi resta che proseguire verso la campagna.
Il senso vietato, un po’ me lo ricordavo, beffardo, mi impone una deviazione per vie semisconosciute, strette e buie; riesco a non perdermi, ma della mia precisa destinazione nessuna traccia.
Sarà alla fine il contatto radio con la centrale, poi direttamente al telefono della cliente, a permettermi di rintracciarla.
E’ una giovane nera, alta, per fortuna non alterata né sgarbata.
“Ce l’abbiamo fatta”, le dico, “purtroppo non c’è l’ombra di un numero… La prossima volta le consiglio di dare come indicazione la chiesa”.
“Ah, va bene”, ha l’accento francese, e la voce calda; poi mi dice la destinazione.
E’ una residenza, credo universitaria, presso una zona industriale. Altre volte mi ci sono recato dal centro; da qui il mio scarso senso di orientamento, sommato allo stress già accumulato, non mi aiuta, e, maledizione, non azzecco la rotonda giusta e mi ritrovo certamente troppo in centro.
Massima trasparenza: confesso l’errore, poi imposto l’indirizzo sul navigatore del terminale radio multifunzione.
Non ero così lontano, e la mia velocità, nel ripercorrere a ritroso parte della strada fatta, questa volta è un po’ nevrastenica.
La residenza è una doppia palazzina con un lungo cortile e spartitraffico nel mezzo. C’è un giovane seduto su un marciapiede del vialetto pedonale, dall’aria completamente persa, più che assorta. Ma non è lui che stiamo cercando.
Un altro giovanotto, grande e grosso e nero di pelle, sta aspettando in fondo al cortile, sul lato opposto, con l’espressione un po’ preoccupata.
Applico un vistoso sconto alla tariffa indicata dal tassametro.
La mia passeggera spiega in francese la situazione al suo compagno, e per fortuna gli spiega anche, con tono giustificativo, che le ho fatto un bello sconto. L’uomo estrae una banconota da venti e me la allunga; gli do il resto e lo saluto; mi guarda e ricambia il saluto.
Poi prende sottobraccio la donna.
Prima di riavviarmi li osservo un attimo allontanarsi, verso la scala a vista, la corporatura atletica di lui, il bel sedere tornito di lei, nelle luci di questo quieto angolo alla periferia del mondo.
Poi mi porto senz’altro verso l’uscita, tornando a passare davanti al giovane seduto sul marciapiede del vialetto.
Ha la testa un po’ china, assorta in chissà quali pensieri.
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Immagine da: http://unavitaditraverso.blogspot.com/
Bonsoir ma chère vous attend
Moi aussi ! Risponde lei abbracciandolo senza vederlo in volto.
L’altezza ,i magnifici pettorali evidenti anche attraverso la felpa, formavano un caldo cuscino alla guancia di lei.
Restarono così ancora per secondi, poi lei alzò sorridendo gli occhi verso quelli di lui che l’osservava a capo chino.
Vieni ,non vorrei che qualcuno ci vedesse, anche se è molto tranquillo qui.
E’ una buona sistemazione, il presidente ha pensato a tutto per noi giocatori : ottimi i miniappartamenti, ottimo il pranzo e il trasferimento per gli allenamenti e le trasferte.
Mi sento bene qui.
Come mai ti hanno lasciato libero ?
Questa sera sono tutti via, non c’è nessuno,partecipano ad una premiazione relativa allo scorso anno. Io non c’entro e non mi andava di andarci. Meglio rivedere te.
Anche io mi trovo bene qui in città, anzi fuori città,ma la famiglia che mi ospita è molto discreta e sono stati simpaticissimi i primi giorni di adattamento. Per me è la prima volta in Italia ed in questa città.
Si allontanano abbracciati e con lo stesso passo , ampio lei, corto lui,ma coordinato.
Viaggiano i due innamorati, viaggia la cavallona sullo stradone, sulla tangenziale, viaggiano i sogni svaniti del ragazzo seduto ai bordi del selciato.
E’ una delle ultime serate gradevoli per far tardi. A breve tutto si coprirà di brina luccicante alla luce alta e fredda dei lampioni e così anche i suoi progetti, le sue frasi compilate, ripetute , memorizzate per far presa sulla sua amica.
Che sfiga, ha invitato quelli di dell’ultimo anno di istituto, pieni di tante parole, sensazioni, forza, che provocano facili emozioni su di una ragazzina. Va bene così, pazienza.
Ce ne vuole abbastanza nel momento in cui ti giunge una telefonata al bar, quando sei con i soliti a bere a parlar di calcio, di cazzate combinate in giovane età.
Invece no , ti giunge la voce della mammina che non trova le pillolette e tu devi tornare, subito, caschi il mondo, preghi perchè giunga uno tsunami a ripulire da tutte le malattie e le sindromi, ma te devi tornare.
Poi raffreddati i bollori, ti accorgi che si ,è stata una fortuna, un segno, una mano che il cielo. la natura ti porge, evitarti di accumulare quantità di alcol in sede epatica ed euri in cassa al barista.
Stasera un pò di marmellata, come viene chiamata ultimamente la tv. Ma mi chiedo cosa nuoce di più , l’alcol con gli amici, la televisione che ti alza la pressione o il fumo che mi rende catarroso il respiro ?
Ci penserò domani, ora sono le 23,40, non prenderò decisioni.
Ciao a tutti .
T.
Ecco, senza soluzione, l’intrecciarsi di realtà e iperreali fantasie, favorito dall’ottimo e sempre visionario amico Tonino.
Che dire?
Grazie di cuore, hai impreziosito il tutto.
assonanze-collegamenti-viaggi-incontri….:
sera Clarksdale Mississippi…dove Robert Johnson ha venduto l’anima al diavolo per suonare divinamente- anzi diabolicamente il Blues-la musica del diavolo-…il patto fu efficace..suonava da dio o da diavolo….
pernottamento in un luogo che solo in america si può trovare…una vecchia fattoria…i capannoni diventati in parte hall dell’albergo, in parte sale enorme per concerti..in parte stanze per gli ospiti…ma poi c’erano i Bungalow…ricavati dalle vecchie baracche dei lavoratori…dentro e fuori di esse…quella che noi chiameremmo paccottiglia del tempo e che in america fa quasi “museo” ….
musica… andare a sentire un pò di blues….il locale dove quella sera suonavano si chiama Red, non ha insegna…bisogna spulciare tra le case…cercare….dalla macchina vediamo passare un nero…alto…vestito con un completo rosso fiammante pantaloni e giacca ed in testa un cappello a falde larghe dello stesso colore fiammante…..un film….ma era realtà….entra in un luogo incredibile….e….eccolo il Red…e lui è il padrone….entriamo….e ….entriamo nella loro realtà…un locale improbabile…una parte riservata ai suonatori …il bancone…pochi tavolini…dove lui rosso si definiva in mezzo a tanto nero….sembrava un film…ma era realtà..un pizzico di america autentica e nera..come la musica….le voci…i movimenti dei ballerini….
Red. Mi fai pensare quante “assonanze-collegamenti-viaggi-incontri” di carattere musicale possa scatenare una sola paroletta inglese, a livelli di qualità ovvero di nazional-popolarità abissalmente diversi .
Red Room, poi Red Ronnie, fino a Red Canzian…(!); un rosso quasi blasfemo, nei confronti di quello da te raccontato, vividissimo, essenziale, luminoso, violento, come la prima matita colorata dell’infanzia.
Devo ammettere di non aver mai frequentato la musica blues come si deve (e come invece fa la nostra comune amica di, guarda caso, …rossi orizzonti), ma proprio sabato scorso mi sono imbattuto, sulla radio bolognese del circuito ‘Popolare-network’, in questa trasmissione radiofonica: era presente, con i suoi palpitanti racconti, Fabrizio Poggi, suonatore di casa nello stato del Mississippi ed autore di questo libro sulle sue esperienze. Un mondo davvero affascinante.
Grazie per questa tua nuova visita, e soprattutto per questo tuo bel contributo, Maria!
……azzzz…… è tardi anche stasera. Vedrò domani….. notte zzzz zzzz zzzzzz
Coraggio, Miss, ce la puoi fare, sì!
Basta crederci!
franz l’altro giorno quando ho sentito del tassista di milano non ho potuto che pensare immediatamente a te, a quanto un lavoro come il tuo, può esporre a incontri inquietanti, poi ho pensato al catarroso di cui ci avevi già parlato ed ho pensato strani sì ma alla fine chi lavora nel pubblico di gente strana ne incontra in continuazione 🙂
Decisamente meglio, il Catarroso, che è quasi un amico.
L’episodio di Milano, tuttavia, mi sembra avere qualche attinenza in più con la pazzoide del cane nello zaino, visto che tutto è nato dall’investimento di un cane, costato carissimo a quel mio collega.
Continuo tuttavia a considerare accettabile, spero non troppo temerariamente, la dose di rischio legata alla mia attività. Non so se la reazione selvaggia del padrone di quel cane e dei suoi due amichetti fosse evitabile, probabilmente no; di solito il mio autocontrollo evita un degenerare delle situazioni pericolose, ma non sempre è possibile.
Ma questa, come ogni tragedia, riguarda sempre gli altri…
Salutone.
Ecco, lo sapevo!!!!! Però questi tuoi post tassinari mi piacciono e lo leggero a rate? Di notte? Al mattino presto? Aiutooooooooooooooooooooooooooooooooooo
Ecco, non mi hai voluto dar retta, non hai chiesto le ferie al caposerra, e adesso invochi aiuto…
Comunque hai qualche giorno ancora, ma fai presto perché ho già una nuova idea per il prossimo!
Ciao Miss, buona attività floreale.
Che belli che sono questi squarci di vita.
Grazie, carissimo. Confesso che sono sempre avido di conferme…
Una serata tranquilla, una serata in cui la frase “E tutto scorre” calza a pennello, una di quelle serate a compensazione di altre meno tranquille..
Ciaooo neh!
Ciao carissimo.
Ebbene, un’antica legge degli dei prevede che io ti debba parzialmente contraddire; non verrò meno dunque ai miei doveri.
La prima notazione è che i tre racconti si riferiscono a giornate di lavoro diverse, ma questo in fondo non è molto importante.
La seconda, invece, riguarda la presunta tranquillità del terzo episodio: come ho scritto in risposta a Milvia, ho dovuto tagliare molti dettagli, ma ti assicuro che le difficoltà sugli indirizzi mi avevano stressato parecchio. Certo, un nulla in confronto ad episodi agghiaccianti come questo (vedi qui), accaduto ad un collega milanese.
A te il mio consueto “Salutoneh”.
Tre incontri, tre mondi completamente diversi, raccontati come tu sai fare. Sai, Franz , io credo che se i tuoi passeggeri avessero l’occasione di leggerti, sarebbero contenti di specchiarsi nelle tue parole. Certamente lo sarebbe il ragazzo del Red Room, e anche la ragazza nera e il suo compagno. E forse anche il Catarroso, perché, tutto sommato mi sembra di avvertire una certa simpatia, da parte tua, nei suoi confronti. O forse dovrei dire pietas.
Poi c’è quel quarto incontro, il giovane dalla testa china: chissà perché, anche se ne hai fatta una breve descrizione, è quello che mi è rimasto più impresso. Forse perché con poche parole, ma quelle giuste, sei riuscito a descrivere il senso di smarrimento che probabilmente il ragazzo stava provando.
Ci piace viaggiare con te, Franz. Fare i tuoi stessi incontri, andare nella notte, perdersi, ritrovarsi. Bravo, come sempre.
Che la tua notte sia serena e il mattino sonnacchioso e rilassato.
Milvia
Anche questa volta non mi fai mancare il tuo incoraggiamento e le tue acute osservazioni.
Non ci avevo pensato, ma credo che tu abbia ragione: quel ragazzo, collocato quasi per caso in una notturna e quieta realtà insolita e un po’ di frontiera, ha lasciato anche in me un’eco strana e pensosa.
Quello che invece mi è dispiaciuto, nella consueta rilettura (e limatura in più punti) dell’intero brano, è aver sacrificato, alla giovane nera, un minimo di connotazione psicologica, finita sotto i molti colpi di forbice che ho dovuto dare al resoconto di una vicenda di lavoro estremamente complessa.
Il solito grazie di cuore a te, più un augurio di buona settimana, un caro saluto e un abbraccio.
Ah…ci siam fatti un bel viaggetto con te! è come essere stata al tuo posto e osservare la gente, la città, gli edifici, le strade, la notte…
Sara
E’ bello guidare sapendo di portare con sè, anche se in tempi e modi differiti, amici a cui mostrare le piccole meraviglie quotidiane che si svolgono lungo le strade.
Poi, per rilassarsi, è altrettanto bello ricambiare la visita in meravigliosi giardini popolati da fantastiche creature, floreali e a quattro zampe.