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Una camionetta della polizia presidia l’uscita dell’area di posteggio di Piazza Maggiore; ci dev’essere stata una rissa nei dintorni, poco fa, in questo primo sabato notte nuovamente rianimato dopo le sbornie e le quieti di fine anno.
Il resto della ben conosciuta area su tre corsie ha, anch’esso, l’aspetto classico di questo momento della settimana: non c’è coda di taxi fermi in attesa, bensì un raggruppamento, disordinato, vociante, cosmopolita, di gruppetti di ragazzi e ragazze in attesa della prossima auto bianca.
Non faccio in tempo a superare la piccola folla, per raggiungere la corretta postazione per il carico, che un giovanotto robusto, faccia quadrata, capelli corti, mi si para incontro con decisione, mi chiede in inglese se sono libero e, come usano molti stranieri, mi preannuncia la destinazione prima di salire: dicoteca Matis, nel quartiere Casteldebole, verso il confine comunale con Casalecchio di Reno.
Vista la confusione, complicata da quella camionetta che di fatto ostacola l’uscita, non faccio storie e dico di sì; il giovanotto sale davanti e mi indica i suoi tre amici, dall’aspetto simile al suo, che nel giro di pochi attimi sono anch’essi a bordo.
Temo che qualcuno in attesa inveisca, mentre gli passo davanti a pieno carico uscendo dal posteggio, ma per fortuna nessuno protesta. Freccia a sinistra, e mi inoltro verso via Ugo Bassi.
L’equipaggio dà subito segni di escandescenza alcoolica. Quelli dietro, uno in particolare, si agitano come degli ossessi e gridano come dei galli da combattimento. Abbassano i finestrini e si rivolgono in modo sguaiato ai passanti che incrociamo, soprattutto alle ragazze.
Quello davanti, un po’ più controllato nonostante l’alito etilico, due o tre volte ordina agli altri di non urlare, ma senza alcun’efficacia.
Aspetto un po’, poi mollo un violento urlo anch’io: “Quite, please!” (riminiscenza delle telecronache dei ben più forbiti tornei di tennis…), a mia volta senza alcun successo.
Qualcosa di più ottengo con un’altra strategia: rallento decisamente, fino quasi ad arrestarmi, poi faccio gesti molto lenti e vistosi con la mano, di acquietarsi, e sussurro soavemente: “Ssssssh!,” come fossimo in presenza di un bambino addormentato. Restano un po’ spiazzati e in effetti la baraonda per qualche momento si ridimensiona.
Ma poi riprende. Sento le ginocchia del marcantonio che mi sta dietro agitarsi contro il mio schienale, e urla, e risate, e “fucking!” a iosa, a condire tutte le brevi frasi gutturali e incomprensibili.
Non mi resta che spingere sull’acceleratore e sperare che il supplizio finisca presto e senza danni.
Dopo un po’ mi accorgo che quello che mi sta dietro, il più esagitato, ha improvvisamente cambiato registro: una voce gentile, un tono riflessivo, da bravo ragazzo, mentre pronuncia più di una volta la parola “Mamy,” evidentemente al telefono.
Allora se vogliono si controllano, ‘sti bastardi, penso fra me con aumentato fastidio.
Quello davanti mi chiede di sintonizzarmi su ‘Bum bum network’; gli dico che non l’ho memorizzata, allora comincia ad armeggiare lui sui comandi dell’autoradio. Lascio che faccia, è l’unico di cui mi posso fidare.
Una risatina furbesca e sfottente degli altri due mi lascia intuire che quello dietro le mie spalle, dopo aver salutato mamy, ha combinato una qualche piccola bravata. Speriamo bene.
Il portavoce non si accontenta che li lasci alla rientranza della strada, vuole vedere con i suoi occhi l’entrata della discoteca. Mi addentro, non c’è molta gente, oltre ai buttafuori: probabilmente una festa privata. Ora è soddisfatto; mi chiede la ricevuta. Uno di quelli dietro mi paga e mi dice con sussiego di tenere il resto, la bellezza di venti centesimi, poi mi allunga la mano. Faccio finta di non accorgermene, compilo la ricevuta: data, numero di licenza, itinerario, prezzo e firma, la consegno al portavoce mentre gli altri sono già scesi; li osservo un attimo mentre si fanno riconoscere dal buttafuori senza apparenti problemi.
Effettuata in più manovre l’inversione, nella strada senza uscita dove mi hanno fatto entrare, finalmente mi allontano, lasciando i finestrini abbassati per scacciare le ultime tracce olfattive di alcool.
Ma appena raggiungo uno spiazzo tranquillo, mi ci infilo, spengo il motore e scendo per controllare l’abitacolo.
I tre fogli di carta plastificata, con le tariffe e alcune norme da tenere esposte, sono stati estratti dalla busta trasparente applicata dietro al mio poggiatesta, e sistemati sul pianale uno accanto all’altro, a mo’ di zerbino. Ecco la risatina, brutti stronzi, penso.
Risistemo tutto con cura, riapro la portiera posteriore, scendo, poi do un’ultima occhiata di controllo. I sedili sono in ordine, i pedanini pure, ma improvvisamente un piccolo oggetto attrae la mia attenzione. E’ un telefonino, nero, non molto grande, di quelli che si piegano in due; non è certo l’ultimo ritrovato della tecnologia ma è comunque un bell’oggetto.
Il sapore della vendetta è immediato, forte: non ci penso due volte, lo apro e poi tengo premuto a lungo il tasto rosso, finchè sul display compare la videata di spegnimento.
Lo richiudo, lo infilo nella tasca del giaccone, di cui chiudo la cerniera lampo.
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Grazie al cielo il resto della serata lavorativa procede senza ulteriori fastidi; rientro a casa intorno alle due e mezza.
Prima ancora di mettermi in pigiama e di accendere il computer per la consueta breve navigata notturna, mi occupo con curiosità del nuovo arrivato. Non senza fatica riesco a scoperchiarlo e ad estrarre la scheda SIM, che sostituisco con una mia, una di riserva che uso rarissimamente. Incastro i pezzi, provo ad accendere: vediamo se c’è un blocco di protezione. Il display si accende e mi chiede il PIN. Lo inserisco: le icone in inglese del quadro di controllo fanno la loro comparsa. Evviva, è mio. E’ vero, non ne ho nessun bisogno, mai e poi mai lo avrei comprato, e non so se e quanto lo userò, ma è un bell’oggetto, compatto, maneggevole, ed ha il valore aggiunto di essere stato sottratto a quelli là. Cerco di prendere confidenza il minimo indispensabile con i comandi: imposto la lingua italiana poi controllo la rubrica: accanto ai pochi indirizzi presenti sulla mia scheda SIM ne compaiono diversi, venti o trenta in tutto, in inglese, evidentemente impostati direttamente nella memoria dell’apparecchio. Poi lo spengo e lo ripongo su un piano della libreria.
Saranno circa le tre e mezza quando, esauriti i preparativi e i rituali notturni, mi infilo sotto le coperte e spengo la luce.
Ho ancora addosso un po’ di agitazione per il lavoro, ci vorrà un po’ di tempo per addormentarmi.
Ripenso all’episodio. Dovevano essere dei militari americani di stanza in qualche città vicina, magari a Vicenza, mi dico: molto arroganti, un bel po’ bevuti, ma capaci di autocontrollarsi, se necessario. Sono soddisfatto; raramente la possibilità di vendicarsi si presenta così immediata: probabilmente a quest’ora avranno già provato a richiamare, e trovato spento.
Piano piano mi rilasso, nel silenzio totale della casa, e i pensieri cominciano ad andare per i fatti loro, e a trasformarsi nei primi inquieti sogni della notte.
Le quattro e trentacinque. Mi ricorderò a lungo quell’orario sul visore della radiosveglia, prima immagine che catturano i miei occhi dopo aver riacceso di colpo la luce, con il sangue improvvisamente raggelato nelle vene.
Il silenzio della notte è appena stato squarciato da un suono fortissimo, sgraziato, violento, imperioso, come un’improvvisa orchestra d’archi che intona nel cuore della notte, in camera mia, la ‘Marcia turca’ di Mozart.
Mio Dio, mi hanno intercettato. Le note della suoneria, ad un volume davvero esagerato, continuano a veleggiare qualche secondo, svegliando probabilmente tutto il vicinato, finchè mi butto giù dal letto e, ancora incredulo, ne raggiungo la fonte, la apro a libro e premo il tasto rosso per fare tacere quell’agghiacciante musica.
Mi hanno intercettato, nonostante la sostituzione della SIM, nonostante, ne sono sicuro, avessi spento l’apparecchio. Sono riusciti ad accenderlo a distanza.
Scoperchio immediatamente per la seconda volta il telefonino, tolgo la scheda SIM, tolgo anche la batteria, e lascio tutti i pezzi del piccolo oggetto nero, così squartato, sul tavolo.
Cerco di calmarmi, di costruire dei ragionamenti. Lo farò per lunghe ore, fino a scorgere le prime luci del nuovo giorno dagli spiragli delle persiane, e fin oltre ancora.
La polizia. E’ quella l’idea, inquietante, che si impone sulla più razionale ipotesi che si trattasse solo della società di gestione, o su quella, ancora più razionale ed innocua, della funzione di sveglia impostata per quell’orario.
Sono andati in questura, magari hanno raccontato che gliel’ho rubato, sono in quattro e possono testimoniare il falso.
Sono militari, magari c’erano dei segreti dentro quell’apparecchio.
Tengo spento il mio cellulare, se vogliono sono in grado di rintracciarmi, e ho paura di sentire squillare da un momento all’altro il telefono fisso, o il campanello di casa.
Mi sento come braccato.
E’ vero, la mia SIM di riserva è probabilmente stata memorizzata dal gestore con il vecchio indirizzo preso dalla carta d’identità, ma con il codice fiscale se vogliono mi rintracciano.
E poi mi viene in mente quella ricevuta compilata a fine corsa, davanti alla discoteca, con il mio numero di licenza, e con quello sgorbio di firma che comunque può coincidere con il cognome che dichiarai al momento dell’attivazione della SIM.
Dirò la verità, non ho commesso alcun reato, e nemmeno alcuna infrazione al regolamento comunale per i taxi.
Farò quello che sono tenuto a fare: appena possibile andrò agli oggetti smarriti. Da nessuna parte è scritto che dovessi lasciarlo acceso. E se mi chiederanno perchè ho sostituito la scheda SIM dirò che è stato solo per gioco.
No, non ho fatto proprio niente di male, mi ripeto.
Ma paura ed inquietudine stentano a lasciarmi.
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E’ giorno. Il vicino di sotto si è alzato, ascolta la radio a basso volume per un bel po’ di tempo, poi la spegne ed esce di casa, dopo aver impostato l’allarme antifurto.
E finalmente mi rilasso e prendo sonno, e dormo qualche ora.
Al risveglio afferro il coraggio a due mani e accendo il mio telefonino, restando in attesa con rinnovata ansia dell’eventuale messaggio che qualcuno mi abbia cercato.
Passano i secondi, tutto tace.
Buona domenica, Franz.
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Immagine da: http://www.peja.de/video/Zese/
Toc, toc… buongiorno.
Complimenti per il post, intenso e coinvolgente.
Non conoscevo questo blog ma ho letto un tuo commento interessante dalle parti di Giraffa per cui ho pensato di farti visita…
proseguirò nei prossimi giorni con la lettura dei post precedenti.
Ciao.
Benvenuto, Kalojannis, e grazie per i complimenti.
Inutile dire che mi fa molto piacere la tua visita, …e ancor più le prossime!
Ciao, buona giornata.
La suoneria è stata la contro-vendetta del militare folle! Caro Franz, meglio passarci sopra..cioè passare sopra il telefonino, sbadatamente, con la macchina, così non se ne parla più ed eviti la disamistade 😆
Se poi mi chiamano per accertamenti, ci stai a testimoniare di aver visto la zampa di una Giraffa di passaggio che distrattamente lo centrava? 😮
Bum Bum Buuuuummmm!
”Sono il grande fratello,
che scruta e osserva ogni fardello”.
”Dormito male ?
mangiato fritto pesante ?”
I sogni son desideri
di felicità….”
”Prova olio Cardio opplà”
”Con Dannatolon ti senti subito meglio,
…di già ?!”
””Stak.. già fatto ?
Si , con Stik indolor”.
Caro Franz
addormentarti con il televisore acceso
non è salutare.
Tantissimi messaggi vengono captati, assorbiti,ascoltati anche contro la tua volontà durante l’alternanza d’intensità del sonno.
Probabilmente una serata conviviale con me e le nostre amiche , daranno un buon contributo ad un riposo dolce e salutare.
”Dormi tranquillo e asciutto
Malvasia rossa nasconde tutto ! ”
A presto Franz.
T.
Era da dire: la sindrome di ‘al lupo al lupo’ alla fine mi ha colpito.
Dopo aver raccontato invasioni di cavallette, rapporti promiscui con donne jeti, inventori di inconfessabili energie pulite, danzatrici per me intorno al fuoco, alla prima cosa strana che mi succede davvero non ci crede nessuno…
Devo poi contraddirti, caro Tonino, anche sulla tv: non ho ancora provveduto a collegarla con un decoder, oltre a non avere apparecchi televisivi nella stanza dove dormo.
Concordo appieno invece sull’ultima ipotesi taumaturgico-balsamica, benchè debba purtroppo fare i conti con le esigenze lavorative.
Ciao, a presto!
Uauh! Che avventura! E se i quattro fossero agenti dei servizi segreti del paese di Tolintesac e il telefonino non fosse un semplice telefonino, ma una nuova arma segreta programmata per distruggere Arcore, solo se posizionata nella tua casetta, diciamo fra una decina di giorni? E se fossero degli extra terrestri e il telefonino da qui a qualche giorno si trasformasse in una grande astronave pronta a rapirti? E se facessero parte della redazione di Scherzi a parte? E se… fosse stato tutto un sogno?
Comunque, da ora in poi, guarderò con sospetto ogni telefonino e con altrettanto sospetto ascolterò piccole o grandi marce, siano esse turche o lapponi.
Ciao ciao Franz.
Sì sì, prendi pure in giro, che tanto i miei istinti vendicativi per un bel po’ staranno a cuccia.
L’idea del supermissile terra-arcore però mi piacerebbe: più super-eroe di così non potrei mai diventare!
Ciao ciao!
Ma no, non ti volevo prendere in giro! Ho voluto solo sdrammatizzare un episodio che a dire il vero è piuttosto incomprensibile e, come tutto ciò che è incomprensibile, inquietante…
Un’altra cosa, poi, mi inquieta, e non poco: non ti sapevo vendicativo…
Buona serata, caro Franz.
Nei limiti del fisiologico, almeno spero. E poi devo alimentare il luogo comune legato al mio cognome sardo, no?
Quanto all’ “incomprensibile, inquietante”, penso che l’ipotesi della sveglia sia fin troppo ragionevole, ma per diversi giorni manco ci avevo pensato…
Ciao, Milvia, buon sabato a te!
letto senza fermarmi. nemmeno per un respiro. Comunque se andavano a denunciare il furto, gli facevano test dell’alcol, a quelli. Altro che telefonino della mamma. O dell’esercito
Come darti torto?
Il mio approccio piuttosto razionale all’esperienza questa volta deve avere un po’ vacillato, per chissà quali motivi, anche se e a onor del vero, l’oggetto del contendere, cioè un telefonino, con tutto il suo possibile carico di intimità violata, dava inevitabilmente un po’ di inquietudine.
Grazie, ciao!
no che non glielo facevano, i militari americani della base di vicenza vanno ubriachi dove vogliono, devastano locali, guidano provocando incidenti e non succede mai nulla, il cermis insegna loro sono sempre impuniti come il nostro capocondominio
Sì, però custodiscono e diffondono nel mondo la democrazia.
O no?
😯
Certo che lo fai un lavoro impegnativo tu, vero?!
Per moltissimi anni ho ‘prestato’ gran parte della mia vita, tempo, energie, serenità ad un altro lavoro; l’aspetto ludico e l’incomparabile livello di libertà del nuovo mestiere continuano a rendermelo piacevole e non troppo impegnativo.
Anche se, e chi meglio di te può testimoniarlo, …non c’è rosa senza spina!
solo la coscienza di una persona troppo onesta 🙂
…e forse con qualche antico complesso di colpa di troppo.
Ciao! 🙂