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Nel giro di pochi giorni mi sono capitati due clienti di questa particolarissima categoria, appunto i ‘quasi-straccioni’.
Personaggi che brancolano a cavallo fra una vita associata, con lo stile e le regole che ci sono familiari, e un’esistenza invece da barbone, o ‘clochard’, o ‘border-line’, o senza fissa dimora, le definizioni si sprecano.
Sono lì, camminano sulla fune, in sospeso, né di qua, né di là: pochi o pochissimi soldi in tasca ma non fino all’accattonaggio; anzi, a volte, soprattutto di notte, si concedono un taxi. Sfidando la diffidenza del tassista, non certo felice di rischiare di trasformare la propria attività, quella di servizio pubblico a pagamento, in un volontariato involontario.
“E’ troppo freddo per passare la notte in stazione,” mi spiega il primo dei due che, dicevo, mi sono capitati nelle sere scorse.
Vestiti sgualciti, capelli arruffati, un sacchettone di plastica per il suo scarno corredo personale, mi si è avvicinato chiedendomi di portarlo in un albergo economico.
Gli ho spiegato che, vicini, ce ne sono solo un paio in centro ed uno alla Bolognina, passato il ponte di Galliera; ma che comunque meno di quaranta o cinquanta euro per notte è difficile che chiedano.
E’ salito e mi ha detto di portarlo in quelli del centro.
Pensione Marconi, via Marconi 22: la prima scelta standard in questi casi, e quasi mai mi è andata a buon fine.
Partiamo.
Accosto la Cavallona:
“Guardi, deve suonare al campanello e chiedere al citofono, perchè è al primo piano.”
Lo seguo con gli occhi cercare il campanello, ottenere attenzione, e dopo poche battute tornare verso di me:
“E’ pieno,” mi dice, “ma hanno detto di provare alla Pensione Centrale.”
“Sì, fanno sempre così,” ribatto, riavviandomi verso la nuova destinazione, proprio a due passi da Piazza Maggiore.
“E’ bello, qui, è proprio in centro,” mostra di gradire particolarmente.
Quando suona al campanello, che anche qui la pensione è ai piani superiori, si spalanca immediatamente il portone automatico, ma non risponde nessuno.
Lo vedo titubante, cercare nuovamente fra i campanelli, poi, dopo la chiusura della porta, tornare a suonare, e di nuovo vedersi aprire ma non ottenere udienza.
Mi guarda perplesso.
“Provi a salire!” lo incoraggio, e non gli dico quel che penso. E cioè che prima di accettare un ospite lo vogliono almeno guardare in faccia.
Va e torna nel giro di pochi minuti, desolato ed arrabbiato che gli sia toccato salire per sentirsi dire che non c’è posto.
Desolato ed avvilito: “A questo punto torniamo in stazione…”
“Senta, di solito all’Ideale, dietro la stazione, ho sempre trovato. Se vuole provo a telefonare.”
Annuisce.
“Pronto, sono un tassista, avete una camera libera per un mio cliente, per una notte?”
“Un attimo. (…) Abbiamo solo una matrimoniale uso singolo a quarantacinque euro.”
“Hanno solo una matrimoniale uso singolo a quarantacinque euro,” ribadisco al mio passeggero.
Sembra perplesso, addirittura mi dà l’impressione che lo preoccupi più quel letto matrimoniale, del costo della camera; mi chiedo anche se capisce l’espressione ‘uso singolo’.
Poi si decide e accetta.
“Va bene, allora arriviamo lì fra dieci minuti, buonasera.”
Il reticolo di strade e stretti viali della Bolognina, illuminato da opachi lampioni al neon, ha un’atmosfera spettrale.
“E’ brutto qui,” mi fa il mio amico, evidentemente molto sensibile ai fattori estetici.
“Eh, qui è molto vivo di giorno, ma di notte è parecchio desolato.”
“Ci saranno degli autobus, domattina?”
“Mah, penso di sì, ma è meglio se chiede al portiere.”
Un cancellino di un piccolo giardino buio dà accesso all’albergo; accosto lì vicino e glielo indico.
Il cliente mi paga la corsa, senza apparenti problemi.
“Guardi, se vuole aspetto un attimo, prima di ripartire.”
“Va bene, grazie.”
Il quasi-straccione si avvia con il suo grande sacchetto, poi suona il campanello; il cancellino si sblocca.
Si gira verso di me, contento e rassicurato, e mi fa segno di andare.
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La sera dell’8 marzo mi stavo congedando da due signore eleganti, che rientravano in un hotel a quattro stelle, sempre nei pressi della stazione, quando ho visto avvicinarsi un altro tipo, di quella categoria umana, alquanto evidentemente.
Molti tratti simili al precedente, ma ancora meno corredo con sè, e la vistosa menomazione di un braccio amputato.
Mi fa segno di abbassare il finestrino, e poi, con tono un po’ implorante:
“Senta, ce la facciamo ad andare a Budrio con venti euro?”
“Venti euro fino a Budrio sono pochi…” ribatto, ma poi, in breve tempo, mi lascio commuovere e gli faccio segno di salire, aprendogli da dentro la portiera anteriore.
E mi avvio.
“Sa, è troppo freddo per passare la notte in stazione.” Pronuncia quella frase, che mi sembra proprio di aver già sentito, con tono molto calmo, e una netta inflessione meridionale.
“Ci riesce a mettere la cintura, che se no fra un po’ comincia la musica?” gli domando indicandogli le spie sul cruscotto.
“Ma come faccio, con un braccio solo?” Il tono non è arrogante, è quasi di scusa.
“Beh, lasci stare, tanto dopo un po’ smette,” ribatto proprio mentre comincia a suonare quel fastidioso incessante ‘bip bip’.
Che non ci lascerà più fino alla destinazione: è vero che dopo un po’ smette, ma non sapevo che dopo un altro po’ riprende; tecnologia tedesca, intransigente, inflessibile.
“Vado al centro protesi, ho ottenuto il permesso per il ricovero, poi domattina prendo il trenino da Budrio e faccio ritorno, fino a Milano.”
“Ma la fanno entrare, a mezzanotte?”
“Non so, ma al limite trovo qualche sedia dove mettermi. Ho fatto amicizia con le infermiere, sa, ieri ho regalato un fiore a tutte, per la festa della donna. Sono gentili con me.”
La Cavallona galoppa lungo la San Vitale, mentre il mio ospite continua a parlarmi della sua vita.
“E’ una bella città, Bologna, si vive bene; tanti anni fa ho lavorato qui, da Coin.”
“Ah, in centro.” Stupida osservazione la mia, ma il ricordo delle varie sedi di quella catena ora mi è un po’ confuso.
E’ originario di un paese della Campania, e dice che gli piacerebbe tornarci, prima o poi.
“Beh, magari, là, i costi sono minori che a Milano.”
“Ma, dipende, alcune cose sì altre no.
Io cerco di arrangiarmi, quando ho bisogno di qualcosa chiedo, e di solito trovo persone gentili, che mi aiutano.”
Lo guardo un po’ meravigliato, anche dalla sua straordinaria tranquillità.
“Sa,” non smette di dialogare: “ho un fratello che ha un’industria, e guadagna cinque milioni al mese.”
“Ma no, non è possibile, vorrà dire cinquemila euro.”
“No, cinque milioni, ma non mi dà niente.”
“Ma non ha una pensione di invalidità?”
“Sì qualcosa prendo. Sono duecentosettanta euro al mese; sono pochi, ma stando attenti, di qua e di là, si riesce a campare.”
Quando imbocco la provinciale per Budrio, il tassametro segna già i venti euro pattuiti, poco meno di un decimo del suo reddito mensile.
Benché la compagnia non sia sgradevole, cerco di correre, sia per minimizzare i tempi di lavoro non pagati (le mie logiche sono inesorabilmente diverse dalle sue), sia per far smettere, con il sospirato arrivo, quell’incessante segnale sonoro.
“Una volta,” mi racconta, “sono entrato all’Hotel Raphael, vicino al mio paese. Lo conosce? E’ l’hotel più lussuoso che ci sia in Italia. Mi ricordo che mi hanno portato anche la colazione in camera,” dice con un mezzo sorriso sardonico.
“Ma che gentili…” altra mia affermazione a sproposito: non aveva senso immaginare che davvero gli avessero trovato una qualche sistemazione solo per umanità. E infatti il seguito del racconto mi smentisce:
“Poi, quando alla fine ho detto che non avevo soldi, volevano chiamare la polizia,” conclude con un altro placido sorrisetto.
“Dopo qualche giorno, leggo il giornale, e ci sta scritto che l’Hotel Raphael ha preso fuoco ed è stato completamente distrutto.”
Sembra una di quelle storie di santi che mi raccontavano da bambino a dottrina, o di quelle, completamente folli, strologate da Nino Frassica ai tempi di ‘Quelli della notte’.
Quelli della notte, ora, siamo noi, un tassista frettoloso e solo un po’ incuriosito, e questa persona che vive come può ma ha forse qualcosa da insegnare a tanti.
“Eccoci a Budrio, mi ricordo dov’è l’ospedale, perché poco tempo fa sono venuto qui a fare un prelievo di sangue.”
Un paio di incroci azzeccati, ed eccolo là, distribuito su un’area piuttosto vasta, illuminato, desolato, silenzioso, con la sua estesa area di parcheggio davanti.
“Credo che l’entrata sia quella.”
“No, no, non è mica qui che devo venire.”
Per un attimo ho il sospetto che mi prenda in giro.
“Devo andare al centro protesi dell’INAIL, a Vigorso.”
Non trattengo la mia espressione contrariata.
Poi cerco di farmi aiutare dal navigatore per trovare la strada giusta. ‘Nome via?’ mi chiede; imposto invano diverse lettere dell’alfabeto, poi alla fine, con la S, mi propone “Strada provinciale Vigorso”, probabilmente l’unica, o quasi, della minuscola frazione.
Che per fortuna è molto vicina, e ad andatura ancora più sostenuta, confortata anche dai frequenti cartelli che segnalano il Centro protesi dell’INAIL, in pochi minuti è raggiunta.
Quando anche lui riconosce il posto, mi fa:
“Senta, non è che possiamo fare dieci per uno?”
Sono già abbastanza irritato:
“No, no, non vede che abbiamo già passato i trenta? Deve ringraziare che ha trovato me, che nessun altro tassista la portava fino qui di notte per venti euro.”
Tace.
Eccoci davanti all’entrata, chiusa da una sbarra, del palazzo illuminatissimo nel buio della campagna.
Il quasi-straccione rovista nel portamonete, poi mi allunga cinque euro.
“Guardi che sono solo cinque!” gli dico seccamente.
Chiede scusa, e sembra sincero, poi alla fine trova il ventone e me lo dà.
“La saluto e la ringrazio, allora,” e mi allunga la mano destra, l’unica che ha.
Gliela stringo con ritrovato calore:
“Arrivederci, buona fortuna!”
Scende, e lo vedo a fatica ma con decisione scavalcare la sbarra d’ingresso.
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Immagine dal sito: http://tarpaulin.blogspot.com/2008_04_01_archive.html
Ieri pomeriggio a Milano, alla fermata dell’autobus nei pressi degli Arcimboldi, sotto gli occhi nemmeno troppo esterrefatti di una decina di persone, un signore sui quaranta, abbastanza disintamente vestito, sbarbato, di buon aspetto, si è messo a frugare nei posacenere pubblici alla ricerca di cicche.
Soddisfatto della sua “pesca”, sul cofano di un auto parcheggiata ha poi sveltamente e destramente estratto il tabacco delle cicche, sdraiandolo con morbidezza su una cartina di dimensioni maggiorate, color marrone. Che una volta arrotolata si è trasformata in un “Avana” fai-da-te… Il quasi-clochard ha quindi inforcato una quasi-mountain-bike (sgangherata, ma non priva di una certa cura), si è ficcato in bocca il sigaro alla Clint Eastwood, lo ha acceso con un accendino per niente dozzinale ed è partito…
Anche se chissà dove dorme, e cosa mangia, e che fa quando nevica… io ho istintivamente pensato che quell’uomo era più felice di me.
So di sbagliare. Ma continuo a pensarlo anche ora.
Ciao Vecchio!
In tempi ormai lontani, caro Dan, assistemmo insieme a scenette di disperata ma creativa dipendenza dal tabacco, in un ufficio proprio di Milano, ma certo non fino alla sfacciata esibizione, se pur non ricercata, di questo tuo distinto quarantenne.
Tempi duri, complessi, stridenti, ma, per chi ha occhi attenti sulla realtà, tempi anche di piccoli fantasiosi spassosi spettacoli come quello, che probabilmente diventeranno sempre più frequenti, ad alleviare un po’ il diffuso senso di infelicità.
E poi, se proprio non basta, si può seguire l’esempio, no? 🙂
Ciao Vecchio Dan.
Comportamento bizzarro ma indubbiamente ecologico 😉
E comunque, sì, anche a noi queste persone sembrano preoccupate di se stesse mlto meno di quanto non lo siamo noi, a prima vista, per loro.
Ecologia, decrescita, povertà di mezzi materiali, sobrietà, essenzialità, ma anche creatività e fantasia: sono tutti gli ingredienti che l’intelligenza consiglia, per consegnare alle prossime generazioni un mondo ancora vivibile e ancora capace di incanto.
Un benvenuto a voi su queste pagine!
Dirò una cosa quasi scontata, con i tempi che corrono intere categorie di persone che fino a qualche decennio fa potevano vantare una vita tranquilla se non addiritura tendenzialmente sicura, ormai fanno quasi parte della categoria dei quasi straccioni, sicuramente le arie che tirano non ci dicono nulla di buono, ne sono previsti cambiamenti repentini a breve termine, quindi direi che dobbiamo tornare ad appropriarci del motto che diventa sempre di più un imperativo “SOPRAVVIVERE” è necessario e urge riacquisire la nostra capacità di sopravvivere.
Ciaooo neh!
Le nuove povertà avanzano e non è difficile immaginare che la loro avanzata sia destinata ad essere sempre più imponente.
Penso, come dicevo in risposta al nostro comune amico Luca, che possiamo considerare questi marginali un po’ dei precursori, in un mondo che costringerà tutti a dimenticare il nostro attuale stile di vita lussuoso, sprecone e distruttivo.
Salutone, neh.
So che può sembrare stupido ma i clochard mi fanno paura… mi dispiace davvero tanto vedere le condizioni in cui vivono e vorrei avere il coraggio di aiutare chi, coperto da cartoni e pochi stracci, passa la notte al gelo… eppure non riesco ad avvicinarmi, penso che possano essere dei tossicodipendenti o avere chissà quali malattie… e così, come forse la maggior parte di noi, pavidamente giro la testa dall’altra parte…
In effetti, incontrare per strada queste persone pone degli interrogativi molto pressanti alla nostra coscienza, e l’abitudine a girare la testa dall’altra parte è di solito la nostra reazione più “normale”.
Ma penso anche che, per la gran parte dei casi, loro non si aspettino particolari attenzioni dai passanti, e diano per scontato (e in qualche caso addirittura per desiderato) questo disinteresse.
Diverso, naturalmente, il discorso di chi apertamente chiede aiuto, come nel caso raccontato da Lorenza nel commento precedente.
Ero sposata da poco e si abitava in una casina in campagna isolata , con una stradina sterrata che passava davanti. Una mattina che faceva molto caldo passò una donna piuttosto sporca e vestita male. Ci salutammo , eravamo solo noi , e mi chiese da bere. La feci bere e mangiare qualcosa , poi , incoraggiata dal mio comportamento , mi chiese se poteva fare una doccia . Le dissi di sì . Credo che le sembrasse una gran cosa e effettivamente lo era. Nessun altro nel raggio di Kilometri, gliel’avrebbe concesso . Ma quando fu nel mio piccolo bagno mi prese un pò di ansia, mi pareva di aver fatto una gran cavolata . La donna era strana , forse un pò matta o forse solo una marginale , ora che era nel bagno le mie buone intenzioni lasciavano spazio ad un pò di paura . Alla fine, lavata e rifocillata , se ne andò , le chiesi dove stava e fu evasiva. Nei giorni successivi si tenne a distanza , la rividi un paio di volte, poi sparì . Facendo un giro nei campi trovai, dopo un pò di giorni, una specie di cuccia, con dei vestiti abbandonati sparsi fra i cespugli sotto le querce . Sembrava il rifugio temporaneo di un animale . Il giorno che le feci usare il bagno , che le interessava solo per la doccia , perchè tutti gli altri bisogni li faceva all’aria aperta, dopo lavai il bagno con la candeggina, con un certo timore . Questo è stato l’unico contatto ravvicinato di questo genere , che mi lasciò una brutta impressione , come se avvicinandomi molto rischiassi di essere travolta, e lasciando una distanza non facessi in realtà nulla per quella persona. Altre volte ho lasciato la distanza , perchè un coinvolgimento troppo intimo , come cedere il bagno o ospitare in casa propria , qualche volta non si sostiene e ti danneggia . Queste persone comunque sviluppano un senso che gli permette di capire chi hanno davanti, per quello l’uomo senza un braccio si è fidato.
Il tuo racconto, soprattutto nella parte iniziale, ha qualcosa di evangelico: la tua generosità nell’accogliere e nell’aiutare fu insolita, per le nostre odierne abitudini, e ti fa molto onore.
Sono quanto mai comprensibili anche tutti i dubbi e perplessità che ti assalirono, e anche la minore disponibilità in occasioni successive.
Riflettendo, penso che la disponibilità ad aiutare, e fino a quei livelli, sia giusta, ma debba essere accompagnata da grande attenzione ed intuito, perché purtroppo ci sono in giro anche persone che non hanno rispetto per il prossimo e rischiano di fare danni, anzichè ringraziare.
Credo sia sempre giusto, comunque, non tirare via, non scappare, dedicare l’attenzione necessaria, di volta in volta.
Quanto al mio passeggero, il problema di fidarsi o meno non mi sembra proprio dovesse essere il suo.
Comunque davvero mi ha sorpreso, nei suoi racconti, l’impressione positiva delle reazioni della gente alla sua umile ed abituale capacità di chiedere.
Un caro saluto.
Bel racconto sui notturni , come li chiamo io. Mi sono immaginata mentre andavi per la S Vitale e la campagna deserta. Forse avrei paura. Anche io sono affascinata dai senza tetto, ma pare che molti lo facciano per scelta, spostando le loro priorità. Rimane l’esistenza così diversa e molto meno romantica di quanto noi possiamo pensare. Alla fine del mese chiudono il centro notturno dell’Antoniano, segno che la stagione è finita e loro saranno rimandati al loro paese. Comunque possono continuare a vivere anche per la generosità di molti, come te. Ciao Riri52
“Rimane l’esistenza così diversa e molto meno romantica di quanto noi possiamo pensare.”
E’ senz’altro vero, ma se c’è una cosa che mi ha colpito nel mio secondo passeggero, quello menomato, è stata la sua placida serenità, e ancor di più la sua fiducia nel prossimo.
Mi fa piacere, da quanto mi dici, essere riuscito a trasportarti, addirittura mi sembra con un piccolo brivido di inquietudine, fra le campagne notturne non lontane da casa tua.
Un salutone.
Ciao Franz, non ho molte cose da dire solo che questo tuo post mi è piaciuto particolarmente, perchè si avventura in realtà particolari con una giusta semplicità,
una semplicità con cui molti e chissà forse anche io per paura per inadeguatezza per…. avrebbero rifiutato le persone di cui parli, non ti faccio i complimenti per la tua generosità perchè era la cosa giusta da fare anche se non semplice e non banale…
spero di essermi spiegata con queste poche parole, ti auguro una buone notte sveglio o dormiente..
un caro saluto
maria
E’ sempre una gioia suscitare attenzione e partecipazione intorno a vicende che, se il blog non mi costringesse a ripensare, archivierei come normali variazioni sul tema ‘trasporto passeggeri’.
La ‘giusta semplicità’ che sottolinei deriva in fondo proprio da questo approccio, a cui porta la quotidianità del lavoro.
Un grazie per le tue parole, altrettanto semplici e spontanee e per questo partricolarmente gradite.
Ciao, Maria, una buona giornata a te.
Prima di tutto perdonami, Franz, se il commento sarà piuttosto lungo, ma è colpa tua, che hai affrontato un argomento al quale sono abbastanza sensibile.
Sai, io vorrei essere meno timida, forse più coraggiosa, e riuscire, una volta, a parlare con un senza dimora, a farmi raccontare la sua storia. La paura di una rispostaccia, ma, soprattutto, il timore di apparire ai suoi occhi come una persona piena di curiosità morbosa, me lo impedisce. A spingermi sarebbe invece il desiderio di capire, senza pietismi, senza indossare l’abito di dama di carità, perché anch’io, se la mia vita fosse stata diversa, avrei potuto essere lui. E anche per l’amore che ho per le storie, per il racconto. E anche per l’amore, forse romantico e condizionato da letture lontane, che ho per “la strada”.
L’inverno scorso mi è capitato di fare a piedi, più volte, un tratto di via Saragozza/ via Urbana, verso mezzanotte. Ogni volta, rannicchiate sul marciapiede, e distanziate fra loro (e mi sono chiesta anche il perché di questa distanza), c’erano due persone avvolte da coperte, la testa e il viso nascosto da un berretto o da stracci. Sembravano fagotti buttati lì, pronti per essere caricati dal camion dei rifiuti. Ho provato, ogni volta, l’impulso di chinarmi, di chiedere: ha freddo? sta bene? Posso fare qualcosa?
Ma ho proseguito, perché, come diceva Manzoni, “il coraggio, chi non ce l’ha, non se lo può dare”. Però disagio, pena, compassione sono rimasti a lungo, in me. Qui a Bologna, per le strade e d’inverno, non mi era mai capitato di vedere qualcuno dormire su un marciapiede.
In stazione, invece sì, di senza tetto ne ho visti diversi. Nella sala d’aspetto, dove mi sono trovata, a volte, in attesa di un treno notturno, ce ne sono tanti, quasi una piccola comunità, direi. Che non tutti, poi, sono senza dimora, come mi disse un addetto alla sala d’aspetto. Alcuni di loro, ma soprattutto donne anziane, una casa ce l’hanno. Ma sono sole, e hanno paura della solitudine che spesso è proprio di notte che assale più violentemente. Così vanno lì, si incontrano fra loro e riescono a sopravvivere a un’altra notte. Mi ha colpito molto, questa cosa. Davvero non l’avrei mai immaginata.
Avrei altro da scrivere, ma mi vergogno perché ho già scritto tanto. Magari riprendo un altro giorno.
Buona notte, Franz! E grazie per averci portato sul tuo taxi, in queste notti di fine inverno.
P.S.1 :Nella risposta al commento di Loretta scrivi:
“E’ strano ricevere dei complimenti per atteggiamenti di così elementare umanità, che dovrebbero essere normali e condivisi.”
A me non sembra strano, perché la realtà, i tuoi, non li annovera come atteggiamenti normali. Solo per rimanere nel tuo ambito, quanti dei tuoi colleghi hanno la tua stessa pazienza e gentilezza nei confronti di questi diseredati? E tutti, poi, li accettano come clienti?
P.S.2: Look cambiato? Come mai? Se devo essere sincera preferivo l’abituccio di prima: più sobrio, più discreto, più gentile, più elegante, più adatto, secondo me, al suo contenuto e al suo proprietario. Meno aggressivo, insomma, ma ugualmente incisivo.
“(…) il desiderio di capire, senza pietismi, senza indossare l’abito di dama di carità, perché anch’io, se la mia vita fosse stata diversa, avrei potuto essere lui. E anche per l’amore che ho per le storie, per il racconto. E anche per l’amore, forse romantico e condizionato da letture lontane, che ho per “la strada”.”
E’ molto bella e vibrante di sincerità, questa tua istintiva attenzione verso quel mondo parallelo, quali che ne siano le origini, e davvero, a ben pensarci, è difficile restare immuni dalla fascinazione per soluzioni (se non sempre scelte) lontane dai nostri consueti percorsi di vita, ma tanto più vicine alla “strada”.
Mi farà certamente piacere leggere altre tue considerazioni, anzi, sarei felice di averti dato occasione di un nuovo post sul tuo blog, su questo argomento.
p.s.1: devo ammettere che hai ragione, anche se la cosa resta illogica.
p.s.2: finalmente qualcuno che se n’è accorto, anche se con toni critici.
Il ‘tema’ (cioè schema visivo, scheletro di impaginazione) del mio blog era vecchio, perchè concepito prima che il formato standard degli schermi video tendesse ad ampliarsi, e soprattutto ad allargarsi.
Ho dedicato molta cura al nuovo ‘vestito’ (anche a livello di CSS, che è un linguaggio di programmazione che permette all’utente diverse modifiche al disegno originario), e ho intenzione di ritoccarlo ancora, ma nel farlo bisogna mediare fra esigenze diversissime, quanti sono i diversi aspetti che assume il risultato in funzione della dimensione dei video e anche dei diversi browser.
Penso che l’effetto che dici aggressivo derivi da caratteri un po’ troppo grandi sul video del tuo computer, ma altrove non è così, mentre per lo sfondo ho cercato colori riposanti e gradevoli, e quelli non mi sembrano proprio aggressivi.
Un caro salutone e l’ennesimo grazie.
Eh eh… Giustamente è tornata la bandiera arcobaleno (e questa notte più importante che mai), ma ho apprezzato quel tricolore
che per un giorno ha sventolato, pacificamente, sul tetto della tua casa virtuale.
Ciao, Franz. Dormi bene.
Milvia
E’ bello avere un’amica così fedele ed attenta!
‘notte.
Quanta varia umanità incontri con il tuo lavoro.
Bravo a non perdere di vista la dignità umana, tua e degli altri.
Non ripaga materialmente ma dà altre soddisfazioni.
Grazie, Loretta.
E’ strano ricevere dei complimenti per atteggiamenti di così elementare umanità, che dovrebbero essere normali e condivisi.
Sappiamo bene che non è così, invece, in una società che, come sottolinei tu, tende a negarsi le soddisfazioni di vivere, appunto, un po’ più umanamente.
Figure come quelle che hai descritto stanno diventando sempre più comuni: mentre fino ad un passato abbastanza recente la condizione del senza tetto era legata o a una epica scelta di vita intollerante di ritmi e regole della civiltà moderna o all’abuso di alcool (a volte la seconda determinava la prima, o la prima era ostentata a coprire la seconda), l’aumentare incontrollato del costo della vita, il lavoro che è ormai passato da diritto del cittadino ad opportunità quando non a graziosa concessione e, lasciamelo dire, lo sfaldamento di quella micro-rete di solidarietà sia familiare che, per così dire, “di quartiere” (di cui sia la mia Parma che la tua Bologna sanno qualcosa) ha prodotto nuove inedite storie di degrado, emarginazione e sofferenza.
Quando parecchi, sia giornalisti che politici, ammettono che il principale ammortizzatore sociale in Italia è la famiglia, abbiamo detto tutto. Ma le famiglie non sono più quelle non dico dell’immediato dopoguerra e nemmeno dei tempi del boom economico, ma anche soltanto di 25-30 anni fa, un’epoca che mi sembra ancora incredibilmente vicina e invece è lontana anni-luce.
E’ emblematico il modo un po’ ambivalente in cui hai descritto le tue piccole opere di solidarietà: da una parte il cuore che ti detterebbe una disponibilità pressochè totale, e dall’altra il cervello che ti ricorda che stai lavorando per mettere insieme il pranzo con la cena, e insomma tutti i problemi di Bologna li devo risolvere io ecc. ecc. ecc.
Sono ambivalenze che vivo anch’io, dopo aver dedicato la mia vita agli altri (o almeno quella brava ragazza di mia figlia mi assicura che è stato così, io ho fatto solo il mio dovere prima di dipendente della Sanità Pubblica e prima, durante e dopo di cittadino con un minimo di senso della collettività) mi duole confessare che delle volte faccio fatica a sentirmi ancora solidale e privilegio quel poco di interessi privati che ancora mi restano.
Ma delle volte, e per brevi periodi.
Poi mi riassale il simpatico demone dell’Utopia.
Penso che la tua diagnosi sull’aumentare di questa popolazione di casi-limite sia corretta.
E sai che cosa penso anche?
Che siamo abituati ad immaginare l’uomo del futuro esasperatamente tecnologico, mentre forse le esigenze di decrescita, volontaria o forzata, che il futuro non lontano ci porterà, renderanno proprio loro, queste persone che si inventano stili di vita poveri, dei precursori e quasi dei maestri.
Grazie per la tua consueta riflessione, e un invito a non abbandonare la speranza, anche quando trasformasse completamente il suo aspetto in quello del ‘simpatico demone dell’Utopia’.