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Ancora fiere, ancora ospiti da tutto il mondo.
Una chiamata dalla Trattoria Fantoni, all’inizio di Via del Pratello, una delle più famose strade della città, per i molti localini dove giovani, studenti e non, passano le loro serate.
Quando mi vedono arrivare, un paio di ragazze cinesi mi vengono incontro, in particolare una, dai bei lineamenti nel piccolo viso molto espressivo.
Le sorrido e accenno un inchino, in stile orientale, e in piena sindrome di Zelig.
Abbasso il finestrino:
“Buonasera!”
“Buona sela. C’è, vicino, un hotel Micì?”
“Migì?”
“Micì!”
“Micì? Uhmmm” e faccio il viso contratto dal dubbio.
“Sì, Micì!”
“Uhmmm, forse Maxim?, ma non è vicino, it’s not near!”
Intanto, dopo le sue sentinelle, arriva l’ospite vero: sui quaranta, cinese pure lui, giacca sbottonata, valigetta, occhiali sulla faccia tonda, andatura non esattamente da astemio. In qualche maniera sale e si accomoda dietro.
La bella cinesina mi fa segno di chiedere a lui.
“Buonasera, where are we going?”
“Micini,” e con la mano mi fa segno di andare, mentre l’espressione è quella un po’ seccata di chi non ha tempo da perdere.
“Micini?” guardo lui, guardo la ragazza… lui continua a ripetere quella parola, quel gesto con la mano e quella faccia impaziente e molto sfuggente. A questo punto credo di avere l’illuminazione:
“Masini, ‘Masini four’, near the station?”
Risponde di sì con sufficiente convinzione.
Anche la ragazza conferma, quando sente che è vicino alla stazione.
Intanto si è avvicinato anche mister Fantoni, o comunque si chiami il proprietario del ristorante; pessimo segno, ma sulle prime non ci penso, sollevato come sono dall’aver interpretato quegli assurdi affettuosi nomignoli da fidanzatini.
Ha l’aria perplessa, e sono io a tranquillizzarlo:
“Gli ho detto Hotel Masini, Masini quattro, quello sul viale vicino alla stazione, e mi ha detto di sì. Speriamo.”
Nonostante i dubbi, sembrano tutti piuttosto contenti di essersi sganciati da quella problematica presenza.
La butto sull’ironia:
“Se no, poi lo riporto qui!”
Inversione di marcia, si parte. Non è lontano, it’s not far.
Mentre do un po’ di volume alla musica dell’autoradio, arriva alle mie narici l’odore del suo alito alcoolico, appena appena percettibile.
Lungo il percorso do qualche occhiata allo specchietto e poi, quando giro un attimo la testa, ne ho la conferma: si è addormentato, ad una prima impressione sdraiato sui sedili posteriori.
La somma della non piena sicurezza sulla destinazione e avere a che fare con un ospite che ha abbandonato gli ormeggi rende ora la situazione, se non proprio di angustia, comunque piuttosto sgradevole.
La soglia percettiva dell’allarme viene superata all’ultimo semaforo, quando mi accorgo che il mio passeggero non è sdraiato sui sedili, ma è rannicchiato a corpo morto nello spazio a disposizione sul pianale della Cavallona; sopra i sedili soltanto un paio di occhiali aperti e una valigetta.
“Stiamo arrivando, we are arriving!” dico a voce squillante, senza ottenere alcuna reazione.
Trovo un varco sul marciapiede davanti all’entrata dell’albergo, mi ci infilo e freno bruscamente.
“Mister! Mister!”
Esco e mi precipito alla reception.
Quando in poche parole gli spiego la situazione, il portiere chiede permesso ad una signora con cui non aveva finito di parlare, ed esce con me.
Gridiamo entrambi qualcosa a quel corpo apparentemente inanimato, senza nessun risultato.
“Ma lei lo riconosce come cliente dell’albergo? Avevo fatto un po’ fatica a capire la destinazione.”
“Mah, non le so dire. Comunque bisogna portarlo al pronto soccorso. Non voglio che mi muoia qui.”
“Certo, certo.”
Occorre tagliare il flusso di automobili di Viale Masini, per imboccare poco più avanti l’interruzione dello spartitraffico alberato utile all’inversione di marcia.
L’ansia aumenta con il passare delle automobili, imperterrite, una dopo l’altra, non distanziate abbastanza da buttarmici in mezzo.
Potrei esporre al finestrino un fazzoletto bianco e, col clacson, pretendere la precedenza, ma non me la sento: a quest’ora, in fondo, guadegnerei solo pochissimi minuti.
E in effetti ne bastano circa dieci per raggiungere l’Ospedale Sant’Orsola; dieci minuti molto lunghi però: radio spenta, ansia crescente e la percezione che una corsa fra mille altre si è trasformata in una nuova disavventura.
L’entrata dell’area di accesso al Pronto Soccorso è transitabile: un’ambulanza, ferma con il portellone aperto, dev’essere qui sopraggiunta da poco.
Col tono di voce alterato dall’ansia mi rivolgo all’infermiere in tuta arancione:
“Ho a bordo uno in coma etilico.”
“Dov’è?” mi fa, poi scorge anche lui quel corpo rannicchiato nello spazio posteriore.
“Ne abbiamo uno anche noi,” dice: “comunque, aspetta qui che vado ad avvertire.”
Spengo il motore e accendo le luci d’emergenza, restando fermo al posto di guida, mentre vedo una guardia giurata, un tipo un po’ tarchiato, che non resiste alla curiosità e timidamente si avvicina un po’.
“Aspetta pure qui, che arrivano subito” mi fa, rassicurante, il tipo dell’ambulanza.
“Ah grazie.”
L’efficienza del personale è ottima: in meno di un minuto sopraggiunge un infermiere, bianco e azzurro questo, trascinando una sedia-carrozzina, e di lì a poco anche un altro.
“Dov’è?” mi guarda spaesato.
“E’ dentro, è dentro, per terra.”
Fa per aprire con decisione, ma sono io a bloccarlo: “Attenzione a non fargli sbattere la testa!”
“Ci vuole un paio di guanti” fa il secondo infermiere, senza ottenere attenzione.
Apriamo con cautela; la testa, poggiata sulla base dei sedili, non casca.
“Si riesce a spostare indietro il sedile?”
Ci provo, ma è impossibile; allora faccio spazio trascinando al massimo in avanti il mio posto di guida.
I due sportelli aperti, io dalla parte della testa, l’infermiere da quella dei piedi, facciamo leva su quel corpo inanimato e riusciamo a issarlo sui sedili, mentre il contatto fisico sembra svegliarlo almeno un po’.
Poi l’infermiere lo prende sotto le ascelle e fa per trascinarlo sulla larga poltroncina a ruote.
Afferro la valigetta e gli occhiali, poi vedo che, mentre l’infermiere lo sta estraendo dalla vettura, il tipo si guarda intorno: il suo primo pensiero è per quella valigetta, che gli espongo molto chiaramente, attraverso i due sportelli aperti, tranquillizzandolo.
Anche se nessuno me le chiede, mi sento in dovere di dare un po’ di indicazioni, immaginando le difficoltà di indirizzamento di Mister Micini una volta tornato sulla Terra.
“L’ho caricato al Ristorante Fantoni, poi abbiamo capito che fosse diretto all’Hotel Masini Quattro; è stato là che, con il portiere, abbiamo deciso di portarlo qui.”
Gli infermieri non mi danno troppo ascolto, ma quel che conta è che ora a trasportare quell’uomo non sia più io, ma loro, che vedo allontanarsi e varcare l’entrata.
Un sospirone di sollievo.
Ora la guardia giurata mi si avvicina, con tono bonario e accento meridionale commenta l’accaduto, poi mi chiede:
“Ma si è fatto pagare la corsa?”
“E come facevo?” ribatto.
“Beh, almeno un biglietto poteva scriverlo, e metterglielo nella borsa.”
“Ah, troppo complicato, meglio prenderla persa.”
“Eh capisco, ma anche voi dovete magna’…!”
“Cosa vuol mai, bisogna metterla in conto, ogni tanto, una gita gratis.”
Mi guarda con un sorriso gentile nel viso tondo come quello del cinese, ma stempiato, poi mi saluta.
Appena fuori dall’area ospedaliera accosto, mi fermo, spengo il motore e scendo a controllare in che stato è l’abitacolo, dietro i sedili.
Non c’è la minima traccia di niente.
Incredibili, ‘sti Cinesi, penso con sollievo, così compìti anche da ubriachi: primo pensiero, la valigetta, e nessun genere di incontinenza.
Mi rimetto alla guida, e ad ogni buon conto richiamo, sul terminale, la corsa appena effettuata, e ne stampo le statistiche, nell’ipotesi che l’indomani qualcuno voglia indagare.
Anche ‘sta volta non mi cercherà nessuno, neanche l’indomani. E nessuno mi confermerà se in cinese Masini si traduce Micini.
Pazienza, mi verrà da pensare col sollievo di un’altra vicenda a lieto fine, me ne farò una ragione.
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Immagine da: http://corrieredibologna.corriere.it/fotogallery/2010/09/orsola/sant-orsola-nuovo-polo-chirurgico-1703823240601.shtml#8
Chissà cosa c’era dietro quella epica sbronza, se la voglia di dimenticare un amore perduto, il desiderio di divertirsi in una città che si presenta tradizionalmente come edonista e carnale, la scarsa capacità di tenuta rispetto agli alcolici italiani che sono spesso traditori per gli stranieri, o semplicemente un equivoco appuntamento con la sorte nella via ormai più famosa e controversa di Bologna, dove se ben ricordo sono situati carcere minorile, Tribunale dei Minori, casa di Prodi e l’epicentro della movida cittadina.
Mi viene spontanea l’associazione con la sbronza meno drammatica in assoluto, ma ben più drammatica nel suo impatto mediatico ed esistenziale, del ministro giapponese a Roma.
I suoi farfugliamenti, in diretta televisiva o giù di lì, erano stati caritatevolmente attribuiti all’effetto di un farmaco, ma qualunque frequentatore anche occasionale di bettole non poteva aver dubbi sulla reale origine del disorientamento spazio-temporale, cognitivo ed esperienziale del politico nipponico.
Una notiziola che sembrava divertente, si era successivamente trasformata nel primo step di una tragedia: travolto da uno scandalo immane per la severa cultura giapponese, Nakagawa (così si chiamava, e fra poco di capirà il motivo del non casuale uso dell’imperfetto, il meschinello) si era dimesso, non era stato rieletto alle elezioni successive (il Giappone non gode di una legge elettorale-porcata come la nostra) ed era piombato in una cupa depressione che l’aveva condotto alla morte per overdose di farmaci (questa volta per davvero) appena sei mesi dopo.
Spero per il tuo simpatico cliente che l’impatto mediatico ed esistenziale della pittoresca notte di baldoria bolognese sia per lui molto meno severo e si concluda con le amorevoli gradevoli cure di una bellissima infermiera anche lei bolognese doc.
Auguro anch’io al mio ingombrante ospite di aver trovato sollievo, all’angustia del pianale della Cavalllona, fra le curve della più procace e convenzionale delle infermiere bolognesi.
Ahimè i segni di demenza senile cominciano a farsi inquietanti: non ricordo quasi nulla di quel ministro giapponese autore di ‘nakagata’ per lui tanto esiziale.
Nel constatare compiaciuto, ancora una volta, la tua conoscenza delle ‘mie’ strade, devo tuttavia correggerti: Romano Prodi non abita da quelle parti, ma in una vietta vicino alla centralissima Piazza Santo Stefano.
In compenso, via del Pratello, oltre a quanto hai elencato, è sede del ‘Circolo Pavese’, negli anni ottanta sede del ‘Gran Pavese’, importante fucina cabarettistica (Patrizio Roversi e la Siusy, i Gemelli Ruggeri, Vito, Malandrino e Veronica, ed altri ancora).
Un caro saluto.
Francesco,un consiglio:se ti ricapita una situazione analoga chiama il 118,blocca la cavallona e non fare corse al P.S.In pochi minuti arriva l’ambulanza con medico e infermiere a bordo che stabilizzano il paziente sul posto e se ne prendono carico,e tu puoi stare tranquillo di avere fatto la cosa migliore.Ciao.
Hai ragionissima, caro Claudio: l’ansia e la ritrosia a chiedere aiuto mi hanno portato a fare più del dovuto, assumendomi così dei rischi inutili.
Dal punto di vista dell’ ‘infermo’, invece, non sono proprio sicuro che un’ambulanza potesse arrivare prima di quei dieci minuti scarsi che ho impiegato a portarlo al pronto soccorso.
Ciao!
Mamma mia, mica facile rimanere freddi e gestire questo tipo di situazioni.
Credo che rimanere freddi sia impossibile, almeno col mio carettere.
Comunque, l’importante è che non sia ‘rimasto freddo’ il mio ospite… 😉
Ti auguro un buon lunedì e un buon inizio di settimana.
Un sorriso,
Luciana
Ricambiati, buon lunedì, buon inizio settimana e sorriso, con tanta simpatia! 🙂