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La città nasconde, nel suo rumore di fondo, storie di vita, talora gioiose, più spesso dolorose.
Qualcuna di esse si intrufola a volte, scegliendola a caso, in una di quelle camere stagne rappresentate dall’abitacolo di una vettura, di una vettura adibita al pubblico trasporto di persone.
Non era stato difficile rintracciare l’indirizzo, intorno alla mezzanotte, in una zona collinare abitata da gente piuttosto agiata, e una signora, una pensionata non particolarmente anziana, si era fatta trovare già davanti al portone.
Ho percepito subito, nell’ospitarla a bordo della Cavallona, il sollievo di una presenza gentile e garbata:
“Dovrei andare in via xxx; poi se mi aspetta un attimo vado a suonare al campanello e poi torniamo qui.”
“Va bene, d’accordo signora.”
Anche le strade, anche la musica di Radio Montecarlo, anche le luci della città sembrano più armoniose, quando puoi avvertire uno stato d’animo quieto e pensoso in chi stai trasportando sul sedile posteriore destro; le ruote scorrono fluide e i percorsi diventano facili e veloci.
“Ecco, guardi, mi metto qui che non do fastidio a nessuno” dico spegnendo il motore.
“Va bene, grazie, le lascio la borsa.”
“Non si preoccupi, non scappo.”
La vedo allontanarsi e dirigersi al portone, che le colonne del portico nascondono alla mia vista.
Niente, proprio niente, da fare durante l’attesa: sconnettere e riposare il cervello, ad esclusione della relativa zona adibita all’ascolto della musica.
Passano così diversi minuti, più del previsto, ma non abbastanza da allarmarmi.
Poi finalmente vedo la signora tornare verso di me, ma davanti a lei c’è un’altra persona che cammina veloce: un bambino all’apparenza sugli otto-nove anni, mingherlino, dà un’idea di sottigliezza, di leggerezza, anche addirittura nel suo capo, dai capelli molto corti e forse un po’ radi.
Senza chiedere niente a nessuno apre la portiera davanti e si siede con decisione accanto a me, seguito dalla signora, immagino sua nonna, che torna ad occupare il suo posto di dietro.
“Guarda che i bambini non possono stare seduti davanti” gli dico con tutta la delicatezza possibile.
Probabilmente se l’aspettava, probabilmente non cercava altro: mi risponde con un fremito di livore:
“Guardi che ho quindici anni, anche se non sono cresciuta,” sì, proprio cresciuta, dice, con la ‘a’, benchè nulla in lei denoti un qualche segno fisico di femminilità: “dunque io sto qui fin che voglio!”
Taccio, abbozzo, e altrettanto fa la signora.
Ma mentre riavvio la vettura si rivolge alla nipote, e lo fa col tono lievemente addolorato di chi ha dovuto patire ingiustamente una piccola angustia, lamentando la lunga attesa a cui l’ha appena costretta, senza ripondere al citofono nè tanto meno al telefono.
“Ma non capisci, una mossa, una mossa sola e davo matto a N.!” risponde mantenendo quel tono arrogante e rabbioso: “te ne rendi conto?”
“Ho capito, ma almeno rispondi al cellulare, se no cosa posso pensare io?”
Il battibecco dura diversi minuti ed ognuna delle due conserva il proprio tono, calmo e pedagogico la nonna, rabbioso, stridulo e sarcastico la nipote:
“Scusa sai, se non ho il teletrasporto!”, chiosa giustificando il tempo impiegato a scendere le scale.
La musica poi torna a riempire il silenzio, ma questa volta è un silenzio ben diverso, riempito ed echeggiante di quelle vibrazioni, sprezzanti da una parte e dolenti dall’altra.
La signora lascia passare un po’ di tempo, mentre la Cavallona galoppa nuovamente verso la collina, poi si rivolge nuovamente, con lo stesso tono calmo e dispiaciuto, alla nipote non cresciuta:
“E poi devi chiedere scusa a questo signore, per come gli hai risposto prima, perché non si fa così.”
La nervosissima mia compagna di banco non accenna a placare i suoi toni di sfida, e non risponde.
Allora rispondo io:
“Beh, per questa volta la perdono.”
Mi sento in uno stato di rara tranqullità e padronanza, di me stesso come della situazione, e avverto che anche il tono della mia voce è pacato e profondo.
Poi mi rivolgo per la seconda volta alla ragazzina non cresciuta:
“Perchè poi, vedi, non è l’età il problema: se mi ferma un vigile non gli interessa quanti anni hai…” e taccio, perchè il seguito della frase sarebbe: “ma l’altezza”, e temo di scatenare un nuovo finimondo.
Ma è lei, evidentemente preparatissima, ad anticiparmi con la sua vocetta da schiaffi:
“E’ l’altezza vero? Un metro e mezzo, no?”
“Sì, credo di sì, se ben ricordo.”
“Ecco, io sono uno e cinquantaquattro, okay?, quindi il problema non esiste!”
“Ah, allora va bene, scusa.”
Non c’è verso di riportare, in quell’esserino in rivolta, un poco di umanità e socievolezza, e così trascorre il resto del tempo fino alla destinazione.
“Quanto le devo?” mi fa la signora.
Le rispondo con la cifra esatta, che la consueta assurda schermata del terminale indica in formato microscopico, mentre molto più grande compare quella non comprensiva di un euro di supplemento radio-taxi.
“Ecco, tenga pure il resto” mi dice allungandomi i soldi, senza accorgersi che ha fatto i calcoli non sulla mia risposta, ma guardando la cifra sbagliata.
Rinuncio per questa volta a recriminare e ringrazio.
Prima di salutare e di scendere, la signora si rivolge di nuovo alla nipote:
“Allora lo vogliamo salutare, il signore, che è stato gentile con te?”
“Ah allora insisti!” fa lei con l’imperturbabile vocetta di sfida.
Questa volta sono io a non perdonare; mi giro verso la signora:
“Troppa tv, talk-shaw e litigate in diretta!” le dico sorridendo.
A questo punto, la ragazza non cresciuta sbotta quasi in una piccola crisi isterica:
“Ah sì? E invece ho passato la serata a fare le prove col mio quartetto d’archi, capito?”
Apre lo sportello, esce, e se lo chiude dietro con forza, allontanandosi a passo deciso.
“Arrivederla, e scusi tanto…” si congeda anche la signora, con tono più che mai addolorato.
“Non si preoccupi, non si preoccupi signora,” le rispondo cercando di infondere alla mia voce più calore possibile.
Un calore che, mi rendo conto nell’allontanarmi verso nuove strade e nuove storie, non potrà certo sciogliere il gelo del dolore che intuisco, antico e rappreso, in una ricca ma infelice famiglia di questa città.
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Immagine da: http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=9361
Rapportarsi col dolore altrui non è per niente facile: specie quando quel dolore si trasforma in una corazza di rabbia e disprezzo. Molte persone sofferenti preferiscono infliggersi da sole una condizione di solitudine ed emarginazione piuttoso che rischiare di subirla: si chiama “padroneggiamento attivo del trauma”. Queste persone danno per scontato che per loro non potrà mai esserci un amore sincero e senza secondi fini: quindi paradossalmente rispettano di più (fino ad identificarsi con loro) chi li tratta male, mentre sfidano e provocano spesso con disperata crudeltà chi ha un atteggiamento affettuoso.
Non si lasciano mai andare, non perdono mai il controllo. Se lo facessero verrebbero travolte da una carica di angoscia incontenibile. Non possono permettersi di mettersi in discussione, quindi sono stereotipate ed abitudinarie: le loro provocazioni sono sempre le stesse, così che alla fine chi li conosce abbastanza bene non si lascia ferire ed impara a sopportare.
La parte peggiore tocca a coloro che cercano di aiutarli a crescere, a cambiare, ad uscire dalla loro carcerazione autoimposta: sono pochi quelli che riescono a superare la Maginot, gli altri restano scornati ed offesi fuori dall’uscio, ustionati da quella ingiusta ingratitudine nei loro confronti di aspiranti benefattori.
Fra tutti i graditi commenti a questo post, il tuo ha l’indiscutibile valore aggiunto di provenire da un esperto, per ragioni professionali, sulla materia.
Non posso aggiungere altro alle tue interessantissime considerazioni, se non il pensiero di quanto particolare e difficile sia il mestiere di chi deve maneggiare il dolore e le angoscie altrui.
Grazie del bellissimo contributo, ciao!
L’esperienza acquisita negli anni è spesso, ahimè, impossibile da spendere in questo Terzo Millennio di mxxxa e in una città che non riconosco più e a volte mi fa leggermente paura: l’Aspromonte del Nord, la etichettò il modenese Smargiassi in un periodo in cui sembrava che all’ombra della Pilotta ci si ammazzasse a vicenda quasi con compiacimento, diciamo seconda metà del 2006.
Ma una cosa è certa: si tratta di un’esperienza umana ed esistenziale prima che professionale. E, appunto, è un’esperienza talmente fragile e delicata quella di rapportarsi col dolore degli altri (specie quando per fare questo trascuri di occuparti dei tuoi) che ti senti di parlarne sempre di meno e sempre più selezionando il target.
Grazie per l’apprezzamento.
A costo di eccedere in apparente cerimoniosità, sono io che ti ringrazio nuovamente, sia per la tua consueta, densa sincerità, sia per avermi fatto parte di quel tuo selezionatissimo target.
Pensavo in questi giorni che abbiamo un’età ancora bella, per certi aspetti eccellente, nel bilancio fra esperienza acquisita ed efficienza psicofisica: possiamo raccontare tante cose e affrontare la realtà con molti parametri già conosciuti.
Speriamo che il tempo, che corre sempre più in fretta di quanto sembri, aspetti un po’ nell’intaccare quel bilancio.
“ma penso anche che l’uso accorto e consequenziale della parola possa vantaggiosamente prevenirne la necessità.”
Come non condividere questo tuo pensiero, sicuramente hai ragione, ma, ma, ma, per far si che funzioni e che la parola raggiunga lo scopo, la suddetta deve essere supportata da una serie di regole-eventi, la parola deve avere tendenzialmente lo stesso valore e significato, quindi necessita di un estremo e difficile senso e valore di coerenza, non solo nel suo significato intrinseco ma anche e forse soprattutto nelle azioni che ne conseguono, in genere la parola viene asservita alla bisogna concedendo alla medesima la capacità di attribuirsi significati diversi, questo meccanismo perverso è estremamente difficile da comprendere e da condividere, specialmente dai più giovani, anche perché non sempre è frutto di manomissioni volute con lo scopo di distorcere, molto spesso la parola assume il significato attribuitogli dallo svolgimento dei fatti nell’evento stesso, questo concetto è di difficile comprensione per chiunque e richiede anche una onestà intellettuale accettata e condivisa.
Ciaooo neh!
Questa volta sono quasi perfettamente d’accordo con te, soprattutto nel tuo sottolineare l’importanza della coerenza fra parola ed azione esemplare. Aggiungerei solo una cosa: più ancora che l’ambiguità della parola, a giocare negativamente sull’educazione degli italici rampolli credo che sia la pigrizia, che porta i genitori a piegarsi al ricatto di insistiti piagnucolamenti, o chiassose scenate.
Ancora un salutoneh.
“anche se tante cose un senso non ce l’ha” […]
E’ vero, ha ragione il tuo amato (e candidamente sgrammaticato) Vasco: a volte la nostra testarda ricerca di un significato che riscatti qualsiasi umana situazione deve arrendersi.
Anch’io come Amanda ero convinto (fuorviato dalla foto) che il carattere “difficile” della bambina fosse legato ad una qualche patologia e quindi ad una sofferenza che ben avrebbe potuto giustificare tale comportamento… il dubbio mi è rimasto (fortificato dai capelli così corti da farlo sembrare un ragazzino)
Per me in realtà il dubbio non c’è stato, ma l’evidenza immediata di una malattia, come ho cercato di spiegare anche in altre risposte a chi non aveva percepito questo dal racconto.
Ciao!
Credo che la tua giovane cliente abbia tanta rabbia e tanta frustrazione che non riesce a sfogare o a trasformare in energia positiva, è comprensibile, mi pare di capire si tratti di una patologia abbastanza seria e dura da accettare, sopratutto a quella età. I genitori, a volte, sono impreparati a gestire situazioni del genere, magari pure loro avrebbero bisogno di aiuto e sostegno, chissà.
L’inadeguatezza dei suoi genitori, e un ambiente familiare conflittuale, è stato ciò che ho immaginato già dalle prime manifestazioni rabbiose della ragazza.
Credo che il mestiere di genitore richieda una grande maturità e un buon equilibrio interiore; se è vero in generale, la cosa diventa ancora più urgente a fronte di situazioni di estrema difficoltà, per malattie o altre disgrazie.
Condivido dunque la necessità di un robusto sostegno psicologico a livello familiare, in casi come questo; ma ho l’impressione che il cosiddetto Stato sociale sia poco attrezzato in questa materia, e purtroppo la crisi economica non farà che peggiorare la situazione.
Disassociando la bambina del tuo racconto da quella dell’immagine mi vien da dire:
Al di la di qualsiasi considerazione e scusante…dalle mie parti, nel profondissimo Nord/ovest si recita: An bel paira da sgiaflun, a rangiu tut, a fan bin e a guastu pa!… ahahah……..
A parte gli scherzi (ma anche no) il suo rispondere in quel modo alla pacatezza (in generale) non merita risposta ne reazione migliore, uuuhhhmmm si vede che mi sono stufato del gratuito buonismo? da qualsiasi parte provenga, anche se da una semiinnocente fanciulla?.
Ahahah……..
Cerea neh!
La mia reazione ad ogni affermazione ‘politicamente scorretta’ è di immediata simpatia, e questo tuo caso non sfugge a questa mia regola.
Detto questo, però, devo dirmi molto perplesso, anzi contrario, circa la tua idea.
Penso infatti che cercare di correggere gli atteggiamenti scorretti e spesso irritanti dei giovani interlocutori (ma vale anche per i non giovani) sia un doveroso comportamento pedagogico, e più in generale di ristabilimento di correttezza, dignità e giustizia.
Lo schiaffone può benissimo rientrare, a volte, in questa prospettiva: l’importante è che non sia lo sfogo di un accumulo di aggressività da parte di chi lo …elargisce.
Ma in questo caso no, almeno nell’ambito della conversazione avvenuta sul taxi: troppo evidenti i deficit affettivi e il profondo disagio della ragazza, e troppo serie le relative cause, da non richiedere una pazienza quasi senza limiti.
E’ poi vero che anche se, magari in altri contesti, ci scappa lo schiaffone, chi lo riceve capisce e conosce benissimo le motivazioni più profonde, e quindi la quantità di umanità, per non dire di amore, di chi lo dà.
Comunque sia il buonismo, in questo caso, non c’entra proprio.
Salutoneh.
Ovviamente il mio suggerimento non voleva riferirsi al momento contingente, ma sicuramente mi riferivo ad una mancanza di educazione (data ed appresa) nel tempo, è ovvio che se la reazione della fanciulla è avvenuta in quel modo ed in quel frangente è sintomo di sicure mancanze riferibili a tempi indietro e quello che è successo sul tuo taxi non è che il frutto di relazioni ed insegnamenti mancati o non appresi nel tempo, quindi il mio richiamarmi al detto usato dall mie parti non voleva essere riferito al fatto ed al momento che ci hai così ben raccontato, ma, a tutti quei momenti che nel tempo hanno portato a simili atteggiamenti, gli “sgiaflun” a volte sarebbero da distribuire equamente tra chi deve educare e chi deve essere educato, una sorta di par condicio con scopi umanitari.
Ciaoo neh!
Il mio giudizio sulla necessità di pazienza e di dolcezza, in un caso doloroso come questo, andrebbe esteso anche al passato: non riesco proprio a figurarmi senza orrore le maniere forti nei confronti di una persona affetta da una malattia così evidentemente grave.
Ciao!
Anche io non avevo compreso bene la relazione del tuo racconto con la foto, quindi da come evinco dalla tua risposta precedente il caso il mio parlare di “Sgiaflun” è senz’altro fuori luogo e contesto.
Parlandone in senso lato, resto però comunque dell’idea che al di la dei casi patologici il sistema del sano, giusto e ben mirato e giustificato “Sgiaflun” resta comunque l’unico sistema educativo che ha sempre dato dei frutti riscontrabili, in alternativa ci sono le parole, ma il sistema funziona raramente perchè le suddette devono essere spese nel contesto e nel tempo giusto e devono essere ben espresse e ben comprese altrimenti è tutto fiato e tempo sprecato ed il danno diventa inevitabilmnete evidente e quasi sempre irrimediabile.
Ari-ciaooo neh!
Ecco un altro vantaggio di un blog rispetto a un libro: la discussione può aiutare a fare pienamente luce su tutti i dettagli di un racconto, con vantaggio di chi legge e di chi scrive.
Quanto alla teoria sugli ‘sgiaflun‘ (o ‘smataflòn’ come diciamo noi) penso che possano servire a ribadire i giusti rapporti gerarchici, ma penso anche che l’uso accorto e consequenziale della parola possa vantaggiosamente prevenirne la necessità.
Ciao e buona settimana!
Io sono rimasta 1.54 dall’adolescenza in poi.
L’altezza, il peso, l’apparecchio per i denti sono tutte cose nelle quali si riversa un disagio che nasce dentro di noi, scaturisce dal non sapere accettare di noi stessi i lati oscuri e le fragilità ed il lato fisico fa da bersaglio.
La ragazzina ha ancora, soltanto, quindici anni e ce ne vorrà del tempo perchè riesca a smussare o ad accogliere le cose di sè che non le piacciono.
Sono d’accordo con la prima di Milvia, ci potresti davvero pensare a riunire il materiale ed inviarlo ad un editore.
Un abbraccio
Invito anche te, cara Silvana, a leggere le risposte che ho dato ai commenti (temporalmente) precedenti: il caso in questione non è di ‘ordinario disagio’, e per quella ragazza accettare il suo aspetto sarà davvero molto più difficile che per le altre adolescenti.
Anche per quanto riguarda l’incitamento alla via editoriale, che naturalmente mi fa piacere, ti rimando alla risposta articolata che ho cercato di dare a Milvia.
Un saluto e un abbraccio a te.
Chi non si ricorda quanto sono stati difficili i nostri 15 anni…un’età veramente ingrata. Non siamo donne, nè bambine. Volevamo l’indipendenza ed eravamo ancora completamente dipendenti. Volevamo conquistare il mondo e invece iniziavamo a prendere i primi calci in faccia.
Non credo che quella fosse una “ricca infelice” famiglia. Era solo una famiglia…il che è tantissimo.
Vale anche per te quello che ho scritto in risposta ad Amanda: temo di non essere riuscito a rendere a sufficienza l’evidentissimo carattere patologico dell’aspetto della ‘ragazza non cresciuta’.
La malattia, la sofferenza e soprattutto un aspetto clamorosamente ‘diverso’ rendono sicuramente la già difficile fase adolescenziale un vero e proprio calvario, e anche una ‘semplice famiglia’ (che davvero è tantissimo) un ambiente dominato dall’angoscia.
A volte con certe persone serve un calore fuori dal normale per far sciogliere il gelo che si è formato in loro.
La mia impressione immediata è stata che buona parte di quel gelo derivasse dai suoi genitori, ma naturalmente non ne ho le prove; indubbiamente la nonna si è dimostrata all’altezza del difficile compito.
una curiosità Franz: cosa ti ha fatto scegliere la foto di quella ragazzina con la tracheotomia per raccontare la storia di questa amara adolescente? Per tutto il racconto ho creduto che giungesse la conclusione con la notizia che tutta l’amarezza venisse all’esserino arrabbiato col mondo da malattie feroci con terapie spietate anche se necessarie.
Probabilmente a 15 ero anch’io 154 cm, ma forse ero un po’ meno incazzata col mondo, anche se quello è uno stato costitutivo dell’adolescenza stessa a 154 cm come a 195, non si è in pace con se stessi, non ci si accetta, si è sempre troppo o troppo poco qualcosa.
Speriamo sia così anche per lei
Dal tuo e da altri commenti ricevuti mi rendo conto di un difetto nel racconto: ho dimenticato di scrivere che l’affermazione della ragazza intorno alla sua altezza è stata alquanto inverosimile, e sottolineare maggiormente l’evidente carattere patologico del suo aspetto da bambina, anzi da bambino.
Forse così anche l’immagine iniziale sarebbe stata più immediatamente comprensibile.
Quell’immagine mi è sembrata in qualche modo completare e addolcire il racconto: il viso e la corporatura della bambina sono equiparabili a quello della protagonista, nelle dimensioni e nelle tracce della sofferenza fisica per la malattia, mentre la dolcezza della sua espressione e dell’amorevole postura della donna che la regge sono, al contrario, la proiezione nel desiderio di ciò che, con il suo atteggiamento ostile, la ragazza del racconto negava vistosamente di avere mai conosciuto.
Davvero c’è da augurarsi che quell’esserino sgradevole, superata la difficile fase dell’adolescenza, possa trovare un po’ di serenità.
Speriamo che quella ragazzina trovi chi le possa insegnare il linguaggio del cuore.
E’chiaro che ha eretto un muro per difendersi!
un bacio Franz!
Mi ha meravigliato, nell’episodio che ho vissuto, la tenacia della ragazzina nel suo arroccamento, a fronte di un clima psicologico calmo ed accettante che la sua nonna ed io eravamo riusciti a mantenere per tutto il percorso.
Da ciò è facile immaginare che le passate ferite da lei ricevute siano state particolarmente profonde.
Un bacio a te, cara Sara.
Ti ho lasciato una cosa sul mio blog, è una cosa da niente, però volevo farti capire che anche se passo veloce (mentalmente) qualche petalo mi resta tra le mani!
Grazie di cuore, Sara, della citazione che hai voluto fare sul tuo blog, e anche di questo tuo nuovo pensiero di saluto.
Da parte mia spero di uscire presto dall’attuale emergenza nella connettività, causata dalla morte violenta del mio PC, e di poter riprendere a fare visita alle tue pagine, sempre ricche, fra l’altro, di fantastiche immagini di fiori, piante e ammalianti micette.
Se, quando leggo i tuoi articoli che si occupano di attualità e di politica, riesco ad apprezzare tantissimo l’analisi che fai delle situazioni che stiamo vivendo, e ti sono grata per tutte le informazioni che inserisci nei testi, quando poi dal “sociale” passi all’”intimista”, raccontandoci della tua vita, delle tue serate di lavoro, dei tuoi incontri, ogni volta rimango incantata. E mi vien da dire, quindi: ehi, ragazzo, quando ti decidi a raccogliere tutte queste storie e spedirle agli editori? Ma poi, egoisticamente, penso che forse va bene così, meglio che il tuo narrare resti patrimonio esclusivo di chi ti segue qui, in questo luogo accogliente. Però… No, buona la prima che ho detto: secondo me ne verrebbe fuori un libro bellissimo. E il talento merita di essere riconosciuto da tanti. È ormai più di un anno che seguo il tuo blog, e non c’è mai stato nulla che non mi sia piaciuto. Così come mi è piaciuta la tua narrazione di oggi, il cui ritmo segue come una colonna sonora la cronaca dell’incontro, e in cui, come sempre, il senso di pietas del Cavaliere errante travalica l’irritazione che certi suoi clienti gli procurano. E questo va ben al di là di saper scrivere bene. Assomiglia, molto di più, al saper vivere bene.
Grazie, Franz. È bello rimanere incantati.
Milvia
P.S.: io sono alta 1,55. Mi devo preoccupare?
M.
Dopo l’ennesimo tuo commento così gratificante sei nominata sul campo Presidentessa dei miei sostenitori.
Ti posso garantire che tale sostegno è una fonte preziosissima di motivazione per continuare ad impegnarmi nel blog e nella scrittura.
Quanto alla sollecitazione editoriale, non nuova e non solo tua, è un germe che ho dentro e che per il momento stenta a germogliare.
Come tu per prima puoi testimoniare, l’impresa di preparare una raccolta con la dovuta cura, poi di riuscire a pubblicarla, e infine di trovare un pubblico sufficiente a giustificare il tutto, facendosi strada fra una concorrenza immensa, ha un costo non indifferente, in tempo ed energie, e risultati tutt’altro che garantiti.
Anche se in quasi cinque anni non è ancora successo, un blog può crescere e diventare popolare con le proprie gambe, e con il solo aiuto di rapporti di scambio bilaterale con altri blogger, mentre la pubblicazione dei post non ha alcun ostacolo di carattere editoriale.
La prudenza nell’imbarcarmi nell’impresa di un libro è comunque confortata dal pensiero che nulla di quello che pubblico in Rete va perso.
Grazie ancora, cara Milvia, delle bellissime parole di stima e di amicizia.
p.s.: quanto alla tua altezza, hai fatto bene a dirmelo: le prossime volte che mi capiterà di accompagnarti nella Cavallona, ti lascerò sedere davanti solo se avrai la carta d’identità. 🙂