Destinazione d’uso

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L’anno scorso, in questi stessi giorni di calura implacabile, avevo appena finito di leggere un piccolo libro di un famoso autore indiano di cultura vedica, e mi esercitavo mentalmente sui concetti di karma (influsso sul presente della propria grazia o dis-grazia passata) e di darma (vocazione esclusiva di ciascuno di noi); ma soprattutto sentivo rinforzata un’attitudine che già mi apparteneva da molti anni, quella di ascoltare la voce del mio io più sotterraneo e profondo, e di farmi guidare il più possibile da essa in ogni scelta quotidiana.

E’ stata l’applicazione di questa pratica che mi ha portato ieri a vivere la mia seconda domenica di luglio, dopo ben due ‘cambi di destinazione d’uso’, in modo molto sfaccendato, casalingo e silenzioso, almeno fino a quando, nel tardo pomeriggio, è venuto il momento di risvegliare la Cavallona per portarla con me al lavoro.
Il primo deragliamento dai progetti originari è stato nel rinunciare alla volonterosa idea di alzarmi molto presto, per andare a correre, prima che il sole cominciasse a lambire la campagna dall’alto con le sue lingue di fuoco: la voce del profondo mi ha detto ripetutamente di no, e ha poi premiato il mio ascolto regalandomi ancora diverse ore di sonno intenso, dolce e fresco.

Mi sono alzato mettendo a lungo in discussione l’idea alternativa con cui mi ero precedentemente abbandonato al sonno: quella di andare a leggere, durante le ore più calde, in riva al mio fiume preferito, che non è esattamente dietro l’angolo.
Alla fine ho rinunciato anche a quello, scegliendo così di passare nel modo più anticonformista la mia domenica pomeriggio di luce, di sole, di caldo: nella quiete luminosa e particolarmente profonda di casa, nell’inattività, nel riposo.
Applicando, per inciso, un’altra norma di quel prezioso libretto, una delle regole più difficili per chi come me ha il dogma dell’efficienza così radicato: concedersi del tempo nella più totale e improduttiva inattività.

Il benessere inerziale regalatomi dalla bella dormita e dal primo pasto si affievolisce molto lentamente, come la sabbia colorata della metà di sopra di una clessidra, mentre la temperatura in casa, altrettanto lentamente, sale.
La quiete e il silenzio dei dintorni hanno una dimensione del tutto particolare e solenne; anzi… avrebbero, perchè, incredibilmente, sento il vicino del piano di sotto per alcune ore aggirarsi per casa. Ecco, non tutti sono andati al mare: due spiriti liberi, o due poveri diavoli, fate un po’ voi, hanno scelto diversamente, e il caso li ha voluti tenere vicini, uno sopra l’altro, ad infastidirsi a vicenda.
Ma neanche poi tanto: non mi è difficile sopportare i rumori del mio involontario compagno di missione, e neanche la musica, molto morbida, che a un certo punto e per qualche minuto egli decide di diffondere nell’aria ribollente.
Poi finalmente lo sento uscire di casa, e resto davvero solo nel silenzio.

Non siamo abituati alla mancanza più totale di stimoli: la sabbia della clessidra a un certo punto termina, e si resta in una solitudine che, da originaria sorgente di incanto, tende a divenire quella di una sottile e insinuante depressione.
Meno male che c’è il lavoro, e la straordinaria libertà di orari che il mio lavoro mi concede. Il lavoro dai due volti, quello di fonte di stress, come mi sono accorto nella stagione delle foglie verdi, che quest’anno è terminata senza che mi sentissi ancora ricaricato di nuove energie e nuova voglia di vivere, e quello di osservatorio mobile e legame con la vita vera, con la città e la gente.

Mi faccio un minimo di violenza per evitare i gorghi della depressione: mi vesto, preparo il contante nei due portafogli, riempio la bottiglietta d’acqua da bere prima di cena, ed esco di casa. Il sole mi abbraccia nell’uscire dal portone prima di scendere in garage, ma l’aria è ventilata e non avverto la temuta vampata letale.

La luce sul breve tratto di tangenziale è alta, nitida, confortante; spero che ingranare con l’attività mi faccia passare questa subdola sensazione di apatia.
Ma l’esercizio del silenzio mi ha reso ipersensibile.

La coda di attesa in stazione è durata pochissimo; una signora viene indirizzata sul taxi che mi precede; subito dietro la segue un tizio dalle sembianze nordiche e dal volto un po’ cianotico.
“E’ insieme alla signora?” gli chiedo.
Mi guarda ingrugnito e quasi non risponde.
“Allora venga pure con me” e gli indico la portiera posteriore della Cavalla.
“Dove andiamo?” gli chiedo in italiano mentre accendo il motore, e si riavvia l’aria condizionata.
“Hotel Emilia”, scandisce con accento straniero, e un tono puramente essenziale.
La domenica sera è facile caricare delle belle ragazze di ritorno dal mare, toniche e vestite molto leggere; a me è toccato ‘sta mummia, di cui avverto tutta l’acrimonia nei confronti del mondo intero, che mi invade e mi fa male.

Il traffico, lungo i viali di circonvallazione, è piacevolmente scorrevole, fra un semaforo rosso e l’altro.
In pochi minuti siamo a destinazione; blocco il tassametro.
“Eight eighty” gli comunico con più chiarezza possibile.
Estrae il portafoglio e mi allunga una banconota da dieci, ma nel farlo non riesce a contenere tutto il suo fiele: biascica una frasetta incomprensibile, in cui mi sembra solo di capire la parola ‘cold’, freddo.
“Pàrdon?”
Mi fa un gesto con la mano, come per dire “niente, niente,” cosciente lui stesso del suo stato alterato, e quando gli do il resto mi fa, piano: “Thank you”.
Ancor più piano gli rispondo: “You’re welcome” ed esco per andare a recuperare la sua valigia nel bagagliaio.

Forse aveva freddo, ma poteva dirmelo prima, forse è reduce da un viaggio-supplizio infernale senz’aria condizionata, come una coppia di clienti più tardi mi racconterà di aver dovuto sopportare.
Fatto sta che ora mi sento addosso tutta la sua negatività.

Una signora giovane con il bimbo nel passeggino: chiara ed intensa lei, benchè un po’ austera, in quello strano viso oblungo dalla bocca larga ed espressiva, in quella corporatura snella, in quell’abbigliamento leggero; scuro di carnagione e molto socievole il piccoletto, a cui sorrido mentre sistemo la sua carrozza ripiegata nel bagagliaio e lui mi guarda sorpreso ed incantato dalla poltrona posteriore, dove la mamma lo ha già sistemato con sè.
Si va in uno stradone di periferia, in una laterale semisconosciuta ben oltre l’anello della tangenziale.
Il sole è ancora alto e luminoso.
Una telefonata: “No, ho già risolto, puoi fare a meno di scomodarti, adesso.”
Il tono è di evidente ironia amara, in quella prima battuta e ancor più nelle successive.
Un bimbo così piccolo e già una crisi coniugale dall’apparenza piuttosto grave, forse definitiva.
Ecco, adesso alza la voce e gliene dice quattro, penso fra me, ma non lo fa, si contiene e cerca ancora di colpire con il sarcasmo, finchè a un certo punto chiude il discorso, e saluta augurandogli, addirittura, buona giornata.
Dopo un po’ si rivolge a me:
“Può andare più veloce, per favore, il più veloce possibile?”
“Guardi che il semaforo è rosso.”
Comunque, quando diventa verde, le faccio capire che la mia guida è tutt’altro che lenta, anche in un giorno particolare come questo, come stato d’animo.
Ma lo giuro, non è in seguito ad una mia brusca frenata, che ad un bel momento sento un botto improvviso dal pianale posteriore, seguito dal pianto del bimbo, dapprima disperato, poi solo lamentoso.
La mamma, così sbadata nel controllarne i movimenti, è altrettanto brava a calmarlo: “Ssssh,” gli sussurra piano, poi lo prende in braccio e lo riempie di bacini taumaturgici. E il bimbetto sventurato si acquieta miracolosamente.

Il discorso con me viene ripreso, in tono del tutto informale, solo al momento di darmi le indicazioni per imboccare correttamente la sua stradina, in un quartiere assolato e dimenticato da Dio.
Quando siamo a destinazione mi allunga la carta di credito.
“Ah, è vero,” le dico, memore dell’indicazione presente nella chiamata via radio-taxi; poi aggiungo: “guardi che non c’è il simbolo Visa o Mastercard.”
“E’ lo stesso, funziona lo stesso,” mi fa lei.
Striscio tre, quattro volte la carta nella fessura, senza ottenere risposta.
“Guardi che l’ho già usata” insiste.
“Sul taxi?”
“Sì”
Riprovo invano.
“Sul taxi a Bologna?” insisto a mia volta.
“Certo.”
“Non so che dire, qui non risponde.”
“Come facciamo?” mi fa lei.
“Come facciamo?” le rispondo.
“Niente, bisogna che mi porti a fare un prelievo al bancomat.”
“D’accordo.”
“Le chiederei solo di non farmi pagare lo spostamento.”
“No, non si preoccupi, è fermo.”
Nell’andare in cerca dello sportello automatico mi viene lo scrupolo di aver strisciato la carta dalla parte sbagliata; poi un altro scrupolo, che più che un dubbio è una certezza: aver selezionato ‘taxi card’ anzichè ‘carta di credito’. Resisto alla tentazione di confessare e di riprovare; forse un tempo, per eccesso autolesionistico di onestà, l’avrei fatto.
Osservo la giovane signora reggere il pupetto con una mano ed armeggiare con l’altra; mi auguro che la creatura non torni a cascare, e che il distributore di banconote faccia il bravo.
Entrambi gli auspici si avverano.

I due passeggeri rientrano; posso invertire la rotta e riportarli a destinazione, là in quella stradina lontana dai traffici più cupi ed amari della città e della vita, in un luminoso e infinito pomeriggio d’estate.
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Immagine da: http://www.3bmeteo.com/news-meteo/meteo+in+diretta-+34-c+alle+9-30-10087

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10 risposte a Destinazione d’uso

  1. Luca ha detto:

    Ricordo che, una quindicina di anni fa, aveva fatto successo fra i miei amici una mia massima “zenna” (l’equivalente italiano e provincialotto dello zen): “Quando hai 40 cose da fare, fai la quarantunesima”. Sia per me, che per amici e colleghi che avevano sperimentato la messa in pratica di questo precetto, questo piccolo lasso di tempo rubato al dovere finiva per diventare terapeutico se non taumaturgico, ed aiutava a sgrovigliare la matassa a volte minacciosa e soffocante degli impegni della giornata. Brunetta allora era in qualche giardinetto dell’entroterra veneziano a fare il nanetto da giardino, e quindi non c’era la soddisfazione aggiuntiva di fare i “fannulloni” alla faccia sua.

    Solo che i miei amici e colleghi dopo un paio di settimane si erano stufati del giochino e lo avevano abbandonato, io invece l’ho portato avanti con coerenza, spesso vincendo, altre volte tragicamente perdendo (come mi sta capitando in questi ultimi mesi, e potrebbe anche essere una Waterloo definitiva, ma per ora tra me e il destino la partita è ancora aperta).

    Come tu sei molto delicato nel non chiedermi di approfondire, anch’io faccio lo stesso con te, ma ho la percezione di una similitudine che il poeta definirebbe “Quanto somiglia il tuo costume al mio”.

    O come direbbe Pino Masterflash “se anche tu…”.

    Se anche tu a un certo punto della tua vita hai rinunciato a un po’ di benessere solo economico, di successo, di prestigio per recuperare quel margine di autodeterminazione che ritenevi indispensabile alla sopravvivenza. Beh, ci siamo capiti…

    Vedi bene quanto la cronaca minimalistica, direi neorealista, di una domenica d’estate sfaccendata risvegli in chi ti legge risonanze che possono portare lontano. Troppo lontano, E infatti mi fermo.

    • Franz ha detto:

      ‘Il passero solitario’ è una lirica che amo molto, fin dai tempi delle scuole medie e della mia illuminata professoressa di lettere di allora.
      Mentre la gioventù vestita a festa esce per le strade “e mira ed è mirata e in cor s’allegra”, il passero preferisce starsene in disparte e consumare “dell’anno e di sua vita il più bel fiore” cantando, esattamente come il poeta.
      Graditissimo dunque il tuo parallelismo leopardiano fra la tua e la mia vita, accomunate sicuramente da istanze libertarie e di autonomia, ciascuna, ovviamente, attraverso il proprio percorso.
      Sappimi alleato nella tua partita contro il destino, almeno fino a quando potrai stabilire con esso un’alleanza forte e salda. E spero già da domani!

  2. Federica ha detto:

    ciao Franz!
    scrivi molto bene lo sai? sì, certo che lo sai..
    Io generalmente navigo poco nella “Blogosfera”, perchè faccio molta fatica a relazionarmi con qualcuno che non conosco, che non ho davanti e che non vedo (in realtà penso che sia già difficile la relazione diretta, figuriamoci quella virtuale!!) cioè, so che quello che passa veramente tra due persone passa (o non passa) attraverso il contatto diretto (più autentico) mentre scrivendo si possono raggiungere livelli di profondità (a cui tu arrivi facilmente) e di ricchezza di linguaggio che forse, nella chiacchierata, sono più difficili da trovare.
    Insomma, per farla breve, volevo solo dire che avendoti conosciuto a Senigallia mi è più facile immaginarti leggendo i tuoi racconti e questo, oltre ad essere divertente, ha più senso.
    ciao!

    • Franz ha detto:

      Ciao, Federica.
      Innanzi tutto grazie per i complimenti, che gratificano e incoraggiano sempre.
      Penso che gli ambiti della comunicazione diretta e virtuale abbiano entrambi dei punti di forza e di debolezza; è vero che la parola scritta può prestarsi a mascherare l’autenticità, ma è anche vero che il contatto diretto può essere altrettanto viziato da messaggi non verbali, facilmente generatori di percezioni fuorvianti.
      La comunicazione via Internet, poi, ha una potenzialità aggiuntiva affascinante, che nella vita reale è data a pochi: quella di poter raggiungere un pubblico teoricamente infinito, e di poter così diffondere informazioni, idee e messaggi costruttivi, oltre, naturalmente, ad esserne a propria volta i destinatari.

      Un salutone.
      🙂

  3. amanda ha detto:

    ti sei “scupito” ora?

  4. duhangst ha detto:

    Mi piace leggere delle tue giornate, sembrano tutte così interessanti.

  5. Loretta ha detto:

    Ciao Franz, è così piacevole leggere la tua giornata.
    I conflitti sull’andare, o restare, alzarsi, rilassarsi, fanno parte del mio week end, tanti progetti
    la maggior parte mai conclusi.

    • Franz ha detto:

      Ciao cara Loretta, da come ti conosco in blogosfera mi sembri anche tu una persona che sa farsi compagnia da sola.
      E’ un’arte molto importante, per evitare di riempire il tempo di passatempi e compagnie inutili; non angustiarti se poi i ‘tanti progetti’ non vengono quasi mai conclusi: ciò che conta è aver impiegato bene il tempo, anche solo a contemplare una nuvola, o i fiori del tuo giardino.

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