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Da qualche mese in qua, spesso la mia cena è costituita solo da una cialda di gelato grande, quella da tre euro o poco più.
Qualcuna, fra le numerosissime gelaterie cittadine, è rimasta aperta fino alle soglie del Ferragosto; ma intanto le mie pretese sono diventate più complesse, a causa del regime di alimentazione vegana, intrapreso da poco con soddisfazione e costanza.
Nessun problema avrebbero i sorbetti alla frutta, se non per il loro apporto nullo di proteine; per questo sono diventato un cacciatore di gelati al latte di soia.
L’altra sera era giunto abbondantemente il momento della dolce pausa: il cielo era già completamente buio, e anche l’incasso provvisorio in linea con i ridotti obiettivi giornalieri di agosto.
Entro in una delle gelaterie centrali più frequentate, quella di Piazza Cavour.
“Buonasera, li fate, vero, i gelati alla soia?”
“No, mi dispiace.”
“Come mai? L’avevo letto sul vostro sito internet.”
“Li abbiamo fatti per un breve periodo, poi abbiamo smesso perchè non c’era abbastanza richiesta.”
“Ah, va bene, fa niente” esco deluso e irritato, ripromettendomi di denunciare la pubblicità ingannevole in qualche sito di recensioni.
Mi concedo di dedicare alla caccia un tragitto non brevissimo, per raggiungere la gelateria Iglù, ai confini più lontani del quartiere Bolognina; almeno so che là ho già predato, in una delle scorse sere.
Le strade sarebbero piacevolmente scorrevoli, non fosse per i soliti implacabili e beffardi semafori, e l’insolita densità di automobilisti imbranati, quelli da venticinque all’ora, vettura datata e lustra, e ingombro degno di un TIR, densità che aumenta a dismisura in queste particolari notti.
Le due vetrine d’angolo completamente buie mi fanno capire che la gita fuori porta è stata vana.
Invertire la rotta e cercare una preda in centro, nuovo obiettivo via delle Moline.
Il suono di una chiamata via radio: pochi secondi per decidere se accettarla.
Quando un’attesa al posteggio di questi tempi dura a volte anche più di mezz’ora, non si può rinunciare; il mio gelato potrà attendere.
Sono in tre ad aspettarmi, la pelle nerissima, i capelli corti, folti e arricciati, sia la mamma sia la bimbetta che avrà cinque anni, e un fagottino dalla pelle nera in braccio alla mamma.
Prima ancora di entrare, la bimba, in piedi, guardandomi da sotto in su, impone su di sè l’attenzione:
“Io e la mamma pensavamo che non venivi.”
“E invece hai visto che sono arrivato?”
“Buona sera, dove vi porto?” mi rivolgo poi alla signora, che intanto si è seduta col bimbo in braccio nel posto dietro alle mie spalle.
“A Castel Maggiore” risponde sovrapponendosi a qualche accenno di strillo del bambolotto nero.
“D’accordo” e innesco la marcia.
“Signore…” mi sento ben presto interpellato da quella vocetta, impertinente e dolce: “che cosa sono queste?”
“Sono caramelle, non vedi?”
“Posso prenderne una?”
“Se la mamma ti dà il permesso, per me puoi prenderla.”
Sento che la volontà della signora è immediatamente arrendevole.
“Signore…”
“Sì?”
“La mamma ha detto che posso.”
“Bene, allora prendila pure. Accendo la luce così scegli quella che ti piace di più.”
Quando finalmente in via Marco Polo lancio al galoppo la mia docile e fedele Cavalla, la signora si rivolge a me, rettificando la destinazione:
“Ah non Castel Maggiore, volevo dire Castel d’Argile” (pronunciando correttamente l’accento sulla ‘a’): “è lo stesso?”
“E’ molto più lontano, lo sa?”
“Sì, lo so.”
Do un’occhiata alla lancetta del gas: non ce n’è molto ma può bastare.
“Va bene, andiamo pure fin là.”
“Sì, poi mi aspetta un attimo e torniamo con lei.”
Andata e ritorno fino ai confini con la provincia di Ferrara mi faranno raggiungere da soli, e con gli interessi, il resto dell’incasso preventivato; la cosa mi fa chiudere un occhio sull’evidente furbizia del cambio di destinazione, effettuato per evitare il rischio di non trovare nessun tassista disposto a corse extra-urbane.
E d’altra parte non mi sfiora neanche il sospetto che, una volta là, abbiano intenzione di dileguarsi senza pagare: ho ben imparato a riconoscere al volo, e con sicurezza, i tipi inaffidabili.
Fra Bologna e l’abitato di Castel Maggiore, che comunque dobbiamo superare, quasi non c’è campagna, e poca anche fra Castel Maggiore e Funo d’Argelato; ma le strade sono già deserte.
Ogni tanto il piccolo sembra annunciare, con qualche fastidiosissimo strillo a pochi centimetri dalle mie orecchie, la degenerazione della situazione acustisca e generale; ma così non è: la mamma, senza perdere la calma, è brava ogni volta a distrarlo e tranquillizzarlo.
“Signore…” mi fa di nuovo la dolce impertinente.
“Fa un po’ caldo.”
“Hai caldo, allora aumento subito l’aria fresca!”
“Dopo non andare via, eh?”
“No, ho capito, signorina, vi aspetto e poi torniamo a casa tutti insieme.”
Siamo finalmente in aperta campagna quando sento armeggiare pericolosamente sulla maniglia, dalla parte sinistra.
Agisco immediatamente sul comando di blocco delle serrature.
“Che cosa è stato?” dice la curiosissima chiacchierona.
“Il signore ha chiuso le porte, per sicurezza” le spiega la mamma: “perchè il tuo fratellino è piccolo e non capisce che è pericoloso.”
Ancora più fastidioso, giunge di lì a poco alle mie orecchie un rumore inconfondibile, quello di un adesivo strappato dalla sua collocazione.
Mi volto di tre quarti con un’occhiataccia e ne ho la conferma: la piccola furia, in braccio alla sua mamma troppo permissiva, è riuscita ad afferrare un lembo dell’adesivo giallo con il tariffario, attaccato alla base del finestrino e già nel tempo maltrattato ripetutamente, negli angoli, da clienti indisciplinati.
“Dopo lo rimettiamo a posto” fa la signora.
Non rispondo, ma so bene che ormai sarà da buttare, e la cosa mi costerà una spedizione all’ufficio di polizia municipale, in orario scomodissimo per me, a chiedere un duplicato.
La lunga corsa comincia ad esigere un pedaggio non indifferente; lo stato d’animo tende a peggiorare.
Ora la bambina sembra appisolarsi, mentre la piccola furia continua, sistematica, l’opera di devastazione: ora è la volta dei fogli illustrativi, esposti nella carpetta trasparente attaccata posteriormente al mio poggiatesta.
“No, no, non prendere quelli” dice la mamma, ma il bambino strilla e metà del guaio è già combinato.
Finalmente il cartello stradale annuncia la località d’arrivo. All’ultima rotonda prima del centro la signora mi dice di deviare sullo stradone a destra, e di rallentare.
Poi la sento chiamare qualcuno al telefono, cosa che permette al mini-distruttore di riprendere il lavoro interrotto, su quei fogli e quella busta trasparente.
“Insomma,” questa volta mostro di perdere la pazienza: “si possono lasciare stare quei fogli?”
“Sì sì,” risponde la signora, cercando di coordinare la conversazione con l’interlocutore al telefono, quella con me e quella con il satanico bimbetto.
Intanto rallento in attesa di indicazioni.
“Ecco doveva girare di là.”
“Dove, a sinistra?”
“Sì.”
Inverto la marcia, nella desolazione di quest’angolo di mondo, poi giro alla prima a destra. La signora guarda il nome della strada, io glielo leggo forte a scanso di equivoci. Non è convinta.
“No, dobbiamo andare di là.”
“Di là dove?”
“Di là. Un momento” e poi torna a telefonare.
Quando finisce, le chiedo: “Ma lo sa l’indirizzo, che imposto il navigatore?”
“Sì, via N.”
“Ecco, ci voleva tanto?” dico digitando e vedendo riconosciuto automaticamente, con un mio sospiro di sollievo, il nome della via. “Numero?”
“Ma…, vada di là…”
“Di là dove?”
“Di là, che dovrebbero essere sulla strada.”
“Di qua va bene?”
“Sì, adesso vada di là, dove siamo venuti.”
Nuova inversione.
“Non ci sono, ma così intanto ho capito dov’è la via, così quando torno lo so.”
“Allora cosa facciamo?”
“Mi riporti pure indietro.”
“Va bene” e cerco di farmi passare il nervosismo, pensando: “contenta lei…”
“Dove andiamo?” fa la bimbetta alla mamma.
“Torniamo a casa, adesso ho visto dov’è la strada così posso tornarci domani di giorno.”
“No a casa, prima mi devi prendere il gelato.”
Quello del gelato, oltre che il mio segreto obiettivo, sarà il leitmotiv, e l’obiettivo reclamato più e più volte dalla piccola impertinente, nel viaggio di ritorno.
Sistematica come il fratellino, anche la bimbetta di tanto in tanto tornerà a formulare quella domanda e quella risposta: “Dove andiamo?”, “No a casa, prima mi devi prendere il gelato.”
“Signore…”
“Dimmi.”
“Dove andiamo?”
“Stiamo tornando a casa.”
“No, prima dobbiamo prendere il gelato.”
“Ah, io vado dove dice la mamma, ma mi sembra che ci sia già un gelato in frigo.”
“Sì, ma ha l’amarena, e non mi piace.”
“L’amarena la togliamo,” interviene lei: “e la mangio io.”
Non strilla, ma non demorde, e torna alla carica più e più volte, durante il viaggio, con strategica regolarità.
“Signore…”
“Dimmi.”
“Cosa c’è qui dentro?” dice indicando una scatolina di liquirizie nell’incavo sotto il freno a mano.
“Ci sono dei chiodi. Ti piacciono i chiodi?”
“No, non mi piacciono.”
“Io ne vado matto, sono buonissimi.”
“Deve aver fatto la pipì.” E’ la signora, dopo un po’, ad annunciare il lieto evento, mentre apre di qualche centimetro il finestrino.
“Ecco ci mancava anche questa” mi limito a pensare.
“Dove l’ha fatta, nel pannolino?” domanda la curiosetta.
“Sì, perchè lui è ancora piccolo.”
“Signore…”
“Dimmi.”
“Adesso non faceva più caldo.”
“Va bene, signorina, abbasso subito l’aria condizionata.”
“Signore…”
“Dimmi.”
“Dove andiamo?”
“Stiamo tornando a casa.”
“No, prima dobbiamo prendere il gelato.”
“Eh, sai, a quest’ora sono tutti chiusi. Credo proprio che dovrai mangiare il gelato in frigo.”
“Non mi piace, ha l’amarena.”
“L’amarena la toglie la mamma, e tu mangi tutto il resto.”
Siamo finalmente in vista dell’angolo di strade da cui è cominciata l’avventura, e sembra che la piccola si sia rassegnata.
Quando sono fermo e spengo il motore, è lei ad allungarmi, uno dopo l’altro, i fogli estratti dal più piccolo (ma sicuramente più incisivo ed efficace) fratellino.
“Ah grazie, bella, adesso quando siete scesi li rimetto a posto.”
Senza battere ciglio la signora salda l’importo, che non è indifferente, e mi permetterà di chiudere la serata di lavoro.
Solamente, anzichè scusarsi, si concede di farmi un’osservazione per la pericolosità delle spille che tengono, anzi tenevano, agganciata la carpetta con i fogli illustrativi.
Non ribatto, saluto la comitiva e mi dedico a riparare, per quanto possibile, i sabotaggi operati dal piccolo devastatore, i cui pannolini, per fortuna, almeno hanno fatto il loro dovere.
Un meritato gelato alla soia, e senza amarena in superficie, mi sta aspettando.
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Immagine da: http://benessere.atuttonet.it/tag/soia
Dai riflessi multicolori di un gelato ben confezionato ai riflessi multicolori (alcuni suoi colori non sono previsti neppure dallo specchio cromatico) del lago di Misurina, che ovviamente non mancherai di visitare magari fermandoti sulle sue sponde come Pessoa di fronte all’Atlantico o Bukowsky di fronte a una bionda che ha l’aria di starci; la multicromaticità della vita e del pensiero restano sempre e comunque un regalo a costo zero e dai molteplici profitti, basta passare a riscuotere. E dunque, buone vacanze.
Bello e originale, questo tuo volo pindarico sul concetto di multicromaticità.
Bello anche il senso della gratuità dei gentili omaggi quotidiani che la realtà è sempre in grado di fare, certo in maniera più frequente e continuativa in località e situazioni come quella, vacanziera, da cui ti sto scrivendo (se escludiamo le difficoltà che ho avuto a connettermi…).
Grazie e, comunque, a presto!
Perché no gelato normale? Vegano puro? Io vegetariana con qualche virata carnivora, ma gelati come vengono, ogni volta sperimento gusti diversi! Da Fini, via Massarenti? Quanto ai tuoi passeggeri, mi sa che hai fatto anche un corso di sopravvivenza! Ciao Riri52
Sto mantenendo una dieta vegana pura (concedendomi trasgressioni solo nelle cene in compagnia, e nelle vacanze, come quella che comincerò domani nelle Dolomiti Bellunesi). La presenza del latte nei gusti cremosi li rende incompatibili, al contrario dei sorbetti di frutta e dei gelati fatti con il latte di soia; questi ultimi hanno anche un piccolo contributo di proteine, forse trascurabile, ma che me li fa preferire in sostituzione di un pasto.
Da Fini hanno un solo gusto alla soia (con i frutti di bosco); per ora mi sono limitato a chiedere, ma non l’ho provato.
Un corso di sopravvivenza? Ottima idea, dovrebbero proprio renderlo obbligatorio per poter esercitare la nobile arte taxistica…
Salutone!
vegano! ma allora non ci porti più a mangiare i tortelli se veniamo a Bologna 😦
Vegano sì, ma non dogmatico e intransigente quando si mangia in compagnia!
George vi aspetta sempre. 😉
meno male mai amato i fondamentalisti 🙂
Peccato, ti avrei portata volentieri a mangiare i tortellini attraverso il burqa… 🙄
A me l’amarena piace…. 🙂
Vuoi che ti dica l’inconfessabile verità? Anche a me! 🙂
(ho solo diversi dubbi sulle modalità di conservazione)
Io invece ho mangiato così tanto gelato in questi giorni che non ne posso più!
Da Wikipedia: “Il gelato come ‘impresa’ deve nuovamente le sue origini a Francesco Procopio dei Coltelli, cuoco siciliano”.
Buon sangue non mente, anzi …non amarene!!! 😀
A che gusto?
io sono dedita ai cornetti algida alla panna.
Un bacio e zampatine!
La scelta di gelati alla soia è sempre molto ristretta; per ora i migliori (e più varii), li ho trovati alla gelateria ‘Capo Nord’: cioccolato, pistacchio, nocciola, muesli.
Il Cornetto Algida resiste valorosamente al passare dei lustri, evidentemente la sua ‘dedizione’ è ancora diffusa (…ma hai anche un poster votivo? 🙂 )
Zampatine ferragostine, e bacio, ricambiati.