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“Va bene, Madame Christine. Dimmi solo una cosa: ricomparirai nella mia vita?”
“Forse. Comunque è stato un bel Capodanno. E non dimenticarti: Vivere.”
Qualcuno forse se ne ricorda ancora: finiva così, esattamente un anno fa, una delle più emozionanti notti di San Silvestro dei miei anni più recenti.
Chissà se ho eseguito a dovere il consiglio e insegnamento di quella diavoletta, visto che da allora non si è mai più fatta vedere, mi veniva da pensare durante le ultime corse dell’ultima sera dell’anno con la Cavallona, come l’anno passato programmate non oltre le ore dieci, ad evitare quella pericolosa elettricità cittadina, sgangherata e fragorosa, tipica della notte degli eccessi.
Mentre, segretamente, speravo fosse lei, per il terzo anno consecutivo e ancora in qualche modo insondabile, a prendere l’iniziativa di manifestarsi, nella mia vita e a bordo della mia fedele compagna di viaggio.
Alle dieci meno cinque saluto gli ultimi passeggeri, auguri di una buona serata e di un buon anno, poi prendo nota dei totali della giornata e spengo il terminale del radio-taxi.
Un insolito senso di solitudine mi colpisce proditorio e improvviso, reso ancor più acuto e stridente dall’insana euforia che avverto fra la gente che anima le strade, elegante nei vestiti ed eccitata negli atteggiamenti.
E’ quasi un riflesso condizionato, o forse è di nuovo lei che ha scelto questa volta di impossessarsi di nascosto della mia volontà, a farmi dirigere le docili e veloci zampe della Cavallona verso i Giardini Margherita, nuovamente là dove Christine mi portò .
Trovo un parcheggio di fortuna fuori porta Castiglione, esco nella notte tersa e fredda e mi dirigo verso l’entrata del parco, e poi, da lì, verso il Pratone, dove esattamente un anno fa avevo visto ardere, insieme con un’improvvisata catasta di legnetti e cartoni, lo sguardo, i piccoli fari delle pupille, il cuore e tutta la figura compresa nella danza e nel canto, della mia fantastica amica.
Il Pratone, deserto, sembra vivere di una sua propria vita austera, sotto un cielo molto più limpido dell’anno scorso, punteggiato di vivide stelle, e striato dai primi fuochi d’artificio, là sopra l’angusto orizzonte cittadino, mentre han già cominciato a echeggiare i botti, per fortuna un po’ smorzati dalla distanza.
Mi dirigo come un fantasma verso la zona più centrale, a cercare le tracce di quella notte, di quel falò, di quella danza.
Dove sei.
E chi sono, io, qui, solo, nel buio gelido, sperduto alla ricerca di un ricordo.
Nulla.
Mi fermo, titubante e perplesso, aspetto.
La tristezza mi avvolge come un pericoloso nemico. Mi siedo sull’erba fredda e non troppo umida.
E mi sembra, dapprima vagamente, poi sempre più distintamente, di intravvedere un fumo, simile a quello che si levava l’anno scorso da quel caldo falò.
E nel fumo un’immagine sembra comporsi.
Sì, siamo a casa dei nonni, una domenica sera. Silvana, forse Luciana, chissà come si chiamava quell’ospite sconosciuta e inattesa, una cantante lirica, a cui i miei parenti avevano appena chiesto all’unanimità di esibirsi per noi, proprio lì nell’ampia cucina.
Avrò avuto cinque o sei anni, e mi sembra ora di rivedere, se non di riprovare, la fissità del mio volto, sbalordito dall’intensità sonora di quella voce melodiosa.
Una scia di luce solca il cielo sopra i Giardini Margherita, molto più simile a una stella cadente che a un fuoco pirotecnico, mentre un’altra immagine, molto più dolce, si sovrappone all’interno di quella specie di schermo di fumo.
Stesso locale, la grande cucina della vecchia casa dei nonni, sempre una domenica, ma di pomeriggio; oltre i finestroni un dolce e tiepido sole di primavera. La nonna è seduta sulla poltroncina di vimini, e mi fa sedere sulle sue ginocchia, poi intona una filastrocca in dialetto, facendomi sobbalzare lievemente a ritmo col movimento delle sue gambe.
E un’altra stella cade dal cielo.
Resto incantato, quasi ipnotizzato, in balia di quell’incontrollabile flusso di ricordi.
Dopo alcuni lunghi momenti di vuoto, la scena successiva che vedo materializzarsi sembra distante mille anni luce dalle precedenti.
Siamo a Padova, nel mio piccolissimo appartamento. E’ lunedì, è cominciata un’altra settimana di trasferta, e ho appena finito di cenare e di lavare i piatti.
Come ogni lunedì sera, mi sposto immediatamente dalla cucina alla cameretta e mi lascio cadere sul letto, accendo con il telecomando il piccolo televisore incastonato nell’anta dell’armadio, mi copro alla meglio, e vengo ben presto avvolto da un sonno che caccia via ogni altro pensiero.
Un torpore simile a quello che ora minaccia sempre più di impossessarsi di me, mentre assisto, seduto in una notte rigida nel mio vecchio Pratone, al susseguirsi dei ricordi che cadono insieme alle stelle di questa fine d’anno.
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Non so quanti e quali ricordi siano caduti, prima che la coscienza mi abbandonasse, prima che l’intontimento avesse la meglio, questa volta però non compensato dal calore di una stanza e di una coperta.
E ho un ricordo molto vago della sirena di un’ambulanza, che non si allontanava ma proseguiva insieme a me, mentre la luce del primo mattino inoltrato di un nuovo anno entrava dal vetro smerigliato.
Forse qualche volto, il vago senso di benessere di una camera calda e di molte coperte, l’ago della flebo inserito in una vena del braccio destro.
E, mentre finalmente la coscienza stava riportandomi nel presente, il volto di un’infermiera, sopra di me, un volto sorridente, calmo, paziente, incorniciato da un caschetto di capelli castani; la sua veste pulita contro le sbarre del lettino.
“Buongiorno” mi fa.
La guardo senza rispondere.
“Buongiorno, ci stiamo riprendendo dalla notte brava?” mi chiede sorridendo.
Non riesco a ribattere, ma quel sorriso è tutto, per me in questo momento.
“E buon anno, ha visto che splendido sole?”
Giro la testa verso la finestra, dove una tenda smorza gradevolmente la luce di un sole nuovo e vividissimo.
“Buon anno a lei” biascico con la voce roca.
“Fra poco passa il medico in visita, ma prima ci tenevo a farle gli auguri.”
“Grazie.”
“E anche da parte di una sua amica che ha telefonato poco fa. Si chiama Christine, e mi ha detto che la verrà a trovare, prima o poi, e ha detto così di tenere gli occhi aperti, che tanto lei non ha novità.”
Mi sforzo di aprire meglio le palpebre.
E, nell’assenza totale di ricordi, caduti tutti in una gelida notte di fine anno, mi perdo nello sguardo, professionale ma molto dolce, di quella giovane donna.
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Immagini da: http://www.stimart.net/web/index.php?option=com_content&view=article&id=21&Itemid=10
e da: http://evola.altervista.org/2011/02/19/persone/
“La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere?”, era e forse è ancora il grido di battaglia di un pericoloso intellettuale televisivo di inquietante origine irpina.
In effetti questo tuo scritto, come qualche altro in passato, può lasciare interdetto chi pretende che fra sogno e realtà ci sia una cesura univoca.
Nulla ci impedisce di pensare che anche il sogno più folle sia una riorganizzazione necessaria e autoterapeutica del bailamme informe che a volte è la nostra vita quotidiana; e che a sua volta la risaputa routine della cosiddetta “vita reale” trovi tempo e spazio, a volte, per assumere connotati in qualche modo onirici.
Ho come l’impressione che qui tu abbia tratteggiato un meta-sogno, un sogno su un sogno o uno sguardo che guarda se stesso. Sono quelle spirali che, programmaticamente, spaziano fra l’intimistico e il sociale e mettono in collegamento un mondo interiore che a volte ha regole implacabili e un mondo esteriore che forse non ne ha nessuna.
E allora chi ti legge, invece di cercare una stucchevole e non necessaria decifrazione, dovrebbe ritagliarsi uno spazio personale per abbandonarsi al proprio sogno di Capodanno.
Per lo meno, è quello che ho fatto io.
Sono sempre ricchissimi di spunti di riflessione i tuoi commenti.
In particolare, vorrei riflettere sull’elemento autoterapeutico insito nel sogno. Sono più che convinto della cosa in generale, ma bisogna tener presente che il racconto fantastico di un sogno non è un sogno; magari attinge allo stesso serbatoio, quello dei ricordi, ma tutto è organizzato con la sola finalità espressiva, che raggiunge i risultati più ambiziosi quando è in grado di suscitare consonanti vibrazioni nel lettore.
Il fatto di aver indotto il tuo proprio sogno di Capodanno mi fa pensare con piacere, nel tuo caso, di aver raggiunto, o almeno permesso, questo risultato.
ma era necessario finire in ospedale dico io anche se solo nel sogno? perchè è necessaria questa funzione femminile di accudimento?
il racconto è bello… come al solito
Anche se poi ti rifai con i tuoi complimenti, che so sinceri, mi sembri un tantino severa nella critica.
Difficile decidere ciò che è più o meno necessario in un’invenzione con finalità puramente espressive.
Forse, però, l’ambientazione ospedaliera, e (molto più) una funzione femminile di accudimento, ben si sposano al senso della rinascita, che in qualche modo ha bisogno di una figura materna, e questo, in fondo, indipendentemente dal genere maschile dell’io narrante autobiografico.
Caro Franz, non so se ho capito bene ma..la notte di Capodanno l’hai trascorsa in ospedale? Spero vada tutto bene e ti auguro un nuovo anno sereno, da “vivere”, come ti consiglia Christine, ma come piace a te. Un abbraccio
Non è la prima volta che i miei racconti, che mischiano quasi sempre elementi della mia quotidianità ad altri di pura fantasia, ingannano i lettori, o quanto meno pongano loro dei dubbi.
Grazie al cielo l’elemento dell’ospedale fa parte della seconda categoria: a mezzanotte di San Silvestro ero qui in casa e avevo cominciato da poco a scrivere il racconto stesso.
Ricambio l’abbraccio, cara Giraffa, e gli auguri di una vita molto piena e molto ‘come piace a te’!
Che sollievo! Per fortuna, non avevo capito bene, a differenza di tutti gli altri amici visitatori, ma che ci vuoi fare, d’altra parte, sono una giraffa mica un’acuta aquila!
Carissima, mi dispiace averti dato una piccola apprensione, fatto che pure testimonia ancora una volta il tuo buon cuore.
Sto pensando per le prossime volte, visto il ripetersi di questi falsi allarmi, di scrivere la classica frase di avviso “i fatti e i personaggi raccontati in questo film sono frutto dell’immaginazione dell’autore”. 🙂
Auguri, tra stelle cadenti fuochi d’artificio e ricordi. Le feste sono così, un misto di gioia, speranza e malinconia. Non sei l’unico, ma lo sai raccontare molto bene. Ciao Riri52
L’esorcismo, la catarsi, sono elementi costanti nei simboli delle feste di fine d’anno, come ad esempio nel rogo del vecchione nella nostra Piazza Maggiore.
Nel mio caso, a cadere come meteoriti sono i ricordi, ma il significato in fondo è lo stesso.
Grazie, Riri, ciao e auguri a te (e non solo di buon anno… 😉 ) !
Leggerò dopo, intanto ti lascio gli AUGURI !
Auguri a te, Lorenza!
A quanto pare, caro Franz, l’ultima notte dell’anno, ogni volta che si presenta, ha il potere di trasportarti in un mondo magico, dove metafore e simbologie si susseguono, dove passato e presente si miscelano.
Così è stato anche per la notte appena trascorsa. Iniziata con una ricerca, ti va rivivere poi scampoli del tuo passato. Ricordi che attraversano il tuo essere come le stelle cadenti attraversano il cielo (ho trovato molto bella e poetica, questa immagine): il primo, un po’ felliniano, mi vien da dire, con la cantante d’opera che canta nella cucina della tua infanzia, che potrebbe rappresentare lo stupore, lo straniamento, ma anche il primo approccio con l’ignoto. L’altro, dolcissimo e pieno di calore: la nonna, la sedia di vimini, la filastrocca in dialetto, solo per te, tutta per te. L’affetto, di cui abbiamo tutti necessità. Il terzo: il peso della solitudine, forse. La consapevolezza, forse, di non essere la persona che avevi immaginato di diventare.
Ma, alla fine della notte, il passaggio. Il primo giorno dell’anno è arrivato, illuminato dal sole, un giorno pulito, rassicurante, una sorta di ri-nascita. E potrebbe così essere anche il primo giorno del mondo.
Bisognerebbe rinascere ogni giorno, forse.
Grazie, Franz, per questo bel racconto. Anche il saper raccontare tanto bene ha una valenza magica. È una dote che possiedi, questa.
Buon anno, caro amico, buona rinascita. E stelle cadenti generose, che realizzino ogni tuo desiderio.
Ti confesso, cara Milvia, che aspettavo con un po’ di apprensione le reazioni a questo mio scritto, su cui evidentemente avvertivo di aver investito una parte importante della mia interiorità e, come ormai abitudine, della mia notte di San Silvestro.
Come spesso succede, sei stata la più reattiva fra tutti gli amici commentatori, e il tuo giudizio mi ha molto confortato, anche e soprattutto per la sua acutezza: mi sembra che tu abbia saputo leggere anche fra le pieghe, e fornire interpretazioni interessanti e illuminanti anche per l’autore.
Una in particolare mi ha colpito (relativa fra l’altro ad uno dei passaggi forse meno intensi, dal punto di vista emotivo): “lo stupore, lo straniamento, ma anche il primo approccio con l’ignoto”, relativamente all’incanto suscitatomi da quella cantante lirica.
Una buona rinascita anche a te, magari ogni giorno, come caldeggi; e una pioggia fitta di stelle cadenti che facciano a gara con i tuoi migliori desideri.