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‘Ospedale Maggiore – Pronto soccorso – vecchia rampa’.
La chiamata sul terminale video è indiscutibilmente chiara; eppure, intorno alle undici di sera, inoltrandomi nell’area dell’ospedale e poi sulla salita verso la vecchia entrata del pronto soccorso, la diffidenza è come sempre in agguato, da quando l’apertura lungo il vialone posteriore del nuovo accesso per le ambulanze, grande e ben illuminato, ha inferto una definitiva atmosfera desolata a questa vecchia zona. Buio, pochi segni di vita, tutt’al più una persona o due, a volte, che se ne stanno fuori a fumare.
Giunto davanti all’entrata spengo il motore e resto in dubbiosa attesa.
Ben presto mi si fa incontro un tipo, rassicurante, cordiale: “Arrivano subito, sa, le signore.”
Che, infatti, si materializzano di lì a poco, entrando molto silenziosamente, senza salutare. Una bionda, sulla quarantina, un casco di capelli lisci di media lunghezza, l’altra mora, vagamente riccia, più attempata.
Recepita la destinazione, riaccendo i fari, il motore, imposto ‘tariffa uno’ e riparto, invertendo la direzione e aumentando, al contempo, il volume alla musica dell’autoradio.
La notte è tranquilla, una delle tante smorte notti infrasettimanali di una città un tempo nota per la sua costante animazione notturna.
Come l’antennina dell’autoradio cattura la musica in modulazione di frequenza, così le mie antenne, invisibili ma ben allenate, catturano ben presto, nell’atmosfera interna della Cavallona, qualcosa di insolitamente profondo e grave.
Do un’occhiata all’ampio specchietto interno; la bionda è seduta nel posto centrale e tiene il capo indietro, contro il poggiatesta. Abbandono, assenza, senso di qualcosa di sovrastante, impossibile da arginare, controllare, affrontare; la testa di un Cristo sulla croce.
La mia percezione di qualcosa di anomalo, forse allarmante, è immediata.
Il viso della mora, alla sua destra, è completamente orientato verso il suo, in un atteggiamento di devota attenzione e premura, altrettanto impotente.
Di lì a poco un suono un po’ soffocato ma molto chiaro, continuo, dolente; proviene dalla mora, è il suono dei singhiozzi del pianto, che non valgono a far cambiare posizione né atteggiamento alla bionda.
Abbasso immediatamente il volume della musica, in segno di profondo rispetto, e procedo, cercando un’andatura il più possibile costante e morbida.
Sto ospitando il dolore, e il suo relativo mistero, la sua angosciosa, vertiginosa mancanza di significato, che si espande sicuramente, in chi lo sta provando, all’intera esistenza, e a tutto il suo infinito decorso. Non è la prima volta; mediamente trasporto, fra la svariata gamma di stati d’animo dei miei ospiti estemporanei, molto più dolore che gioia; forse sono i segni dei tempi che viviamo.
Non succede nient’altro fino all’arrivo. Con voce quieta e impersonale comunico quanto mi devono; lo raccolgo dalle mani della mora, le dò il resto.
“Buonasera” mi fa con il viso appena ricomposto, la voce ritrovata; poi un po’ a fatica vedo uscire entrambe, una dopo l’altra.
Mi scappa, per abitudine, uno stridente “buona serata”, di cui mi pento un secondo dopo che è già uscito, infelicemente, dalla mia bocca.
Le seguo ancora un attimo, con gli occhi, dirigersi con abituale e muta sicurezza verso il portone di casa.
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Immagine da: http://francescosalistrari.blogspot.it/2012/10/piango.html
Grande umanità in questo tuo triste racconto…
Immagini delicate e silenziose.
Un grande bacione
Giò
Grazie, cara Giò.
Un grande bacione a te.
Bellissimo post, ricco di umanità. E poi hai sottolineato il rispetto necessario in queste occasioni. Rispetto: parola importantissima.
Ho incontrato spesso persone che provano fastidio di fronte al dolore altrui. Ecco, io invece non provo mai nulla di simile.
Un caro saluto, Franz, dopo tanto tempo.
Hai ragione: la parola ‘rispetto’ è una delle più importanti del nostro e di qualsiasi vocabolario.
L’intera umanità ha sempre pagato in maniera tragica, e forse ormai irreversibile, le mancanze di rispetto, sia dei Paesi conquistatori nei confronti di quelli soggiogati, sia del modello socio-economico nei confronti degli equilibri naturali del pianeta.
Un caro saluto a te, cara Romina, e grazie per essere tornata a farmi visita.
Letto. ciao notte.
Ciao.
conosco certe realtà meridionali, ci sono tantissime popolazioni sparse per il mondo che interpretano la morte in modo ancor più marcato del nostro sud.
rispetto tutte le culture ma non credo che la platealità del dolore lenisca le pene, l’esibizione del medesimo (come hai giustamente scritto) ha certamente una componente “paesana”, un parente che non manifesta la giusta dose di dolore crea chiacchiericcio, c’è pure il parametro “rispetto”, il valore del morto è dato dalla partecipazione più o meno numerosa di parenti, amici e simpatizzanti, questo arreca sollievo reale??? intendo nel profondo??? magari sì, può essere. Forse è un pochino come le malattie, ci sono persone che quando si ammalano hanno bisogno di circondarsi di familiari apprensivi, altri tendono ad isolarsi.
buon week end
TADS
Le varie espressioni del dolore, che vanno dalla postura ricurva del corpo fino al pianto o addirittura al grido, hanno una componente (non esclusiva ma essenziale) di comunicazione, ma anche di ‘sfogo’; credo che là dove la comunicazione sia enfatizzata per ragioni socio-culturali lo sfogo, e dunque il sollievo, abbia maggior possibilità di realizzarsi, ferme restando le connotazioni ‘altre’ e spesso ipocrite che hai sottolineato.
Un buon fine settimana a te!
Purtroppo vengo spesso, troppo spesso a contatto con il dolore e nel mio caso è necessario sviluppare un certo modo un pizzico di cinismo che aiuta a sopravvivere.
Come nel tuo caso, però, anche io non so abituarmi alle lacrime e al dolore anonimo, quelle lacrime mute di cui non conosci nulla.
Quelle sono tremende.
E’ un’esperienza forte e difficile, affrontare quelle lacrime mute, ma, come ho accennato nelle risposte ad altri commenti, lascia un senso di profonda umanità, sia pur grave e dolente, e dunque di arricchimento, al contrario di altri generi di incontri molto più fastidiosi.
rispetto, conforto, solidarietà, sensibilità, sono importanti, moltissimo, ritengo però che il dolore sia sostanzialmente incondivisibile, forse giustamente incondivisibile.
TADS
La nostra comune cultura dell’Italia Settentrionale, che esalta i (pur preziosi) valori dell’individualità, ci porta a pensare così, ma se osserviamo altre culture, a cominciare già dal nostro Meridione, si direbbe invece che la manifestazione, anzi l’esibizione all’interno della comunità, del proprio dolore, come di ogni altro aspetto trainante della vita, riesca a stemperarlo e a renderlo molto più sopportabile.
nella disperazione di quello che devi aver percepito, lo hai però reso in una maniera che non riesco a definire per la loro bellezza. BRAVO
Ritrovare uno dei miei più cari amici è di per sè una gioia; sapere di avergli comunicato delle emozioni ancor di più; e infine ricevere un complimento così grande è proprio il …Massimo!
io sul dolore ci sbatto i denti troppo spesso e, per quanto sia difficile, è più facile quando ci è dato:stringere una mano, abbracciare, dire una parola che magari non è mai quella giusta ma chi lo riceve lo sa come viene detta, assistere al dolore e non poter comunicare la propria empatia è terribile
Come dicevo in risposta a Milvia, credo che conti molto anche il ruolo e soprattutto le aspettative da cui ci si sente investiti. Nel tuo caso la compartecipazione e l’intervento sono richiesti, mentre nel mio solo a volte, e sicuramente non nel caso che ho raccontato. E poi comunque anche il silenzio ha moltissime possibili sfumature, e sono sicuro che quello che ho espresso io sia stato percepito in tutta la sua empatia.
“Sto ospitando il dolore, e il suo relativo mistero, la sua angosciosa, vertiginosa mancanza di significato”. Pargolo, sono orgoglioso di te. Io fui il tuo primo maestro, ma nonostante la mia età attuale (tanto venerabile), ho fatto ben poche letture, soprattutto se mi confronto con te. Ma se è vero che “LA SOFFERENZA INSEGNA, PIU’ DELLO STUDIO”, tu ed io molto abbiamo imparato. Posso quindi gridare, con sicurezza e non con sicumera; ” HAI SCRITTO UNA FRASE DA GRANDE SCRITTORE. UNA PENNELLATA DA GRANDE ARTISTA”.
Il tempo che dedico alla lettura di libri non è mai stato molto, anche se cerco di trarne il massimo beneficio. Credo di poter condividere invece la tua affermazione sulla sofferenza, che, in anni lontani ma con eredità tuttora vive, ha insegnato parecchio ad entrambi, e forgiato la nostra rispettiva personalità.
Ti ringrazio di cuore per quel complimento, nel contenuto così generoso …ma anche nella forma così ‘gridata’.
Non potrei fare neppure il tuo lavoro perchè durante quel percorso mi sarei messa
a piangere anch’io con mio grande imbarazzo.
Lode al tuo rispettoso silenzio ed il buona serata speriamo che sia stato per loro
veramente di buon augurio.
Difficile davvero immaginare una buona serata, in quelle condizioni di disperazione.
La tua sensibilità empatica, così incontenibile, a cui accenni, non può che suscitare irresistibile simpatia e affetto.
Venire a contatto con il dolore degli altri, un dolore intenso e devastante come quello che tu racconti, ci rende impotenti, anche quando chi soffre è un amico o un famigliare. Non ci sono né parole né gesti che possano lenirlo. “Ospitare”, poi, un dolore che non ci appartiene, di cui solo possiamo intuire l’origine, crea dentro di noi una forte situazione di disagio, e l’ombra di quella estranea sofferenza ci rimane accanto a lungo.
Diversi anni fa, di ritorno da una bella, solitaria vacanza nell’isola di Ustica, mentre, in attesa del mio volo, fumavo una sigaretta fuori dall’aeroporto di Palermo, mi misi a parlare con una signora , accompagnata da due uomini (il marito e il cognato). Mi raccontò che stavano partendo per Torino, dove il figlio era stato ricoverato per un grave incidente. A un certo punto rispose a una telefonata arrivata sul suo cellulare. Non potei aver dubbi sul contenuto della telefonata. Il grido di dolore della signora, il suo corpo che lentamente scivolava lungo il muro, non perché stesse svenendo, ma come se volesse scomparire dal mondo, li ricorderò per sempre. E mi ricorderò per sempre il mio senso di impotenza, il non poter far niente, se non allontanarmi, per pudore, per rispetto, o, forse, solo per la paura di non riuscire a reggere quella rappresentazione del dolore, così incontenibile, così irrimediabile.
Certo che il tuo è un mestiere che ti mette a contatto con storie di vita le più varie. E, a volte, per una persona sensibile, non deve essere facile.
Dovrei, potrei ricordare i momenti tremendi eppure importanti in cui dovevo ospitare (gestire, per la carità di Dio, lasciamo perdere, chi ne può essere capace, credo che la parola che Francesco ha trovato è la migliore) il dolore dei familiari di un sieropositivo (e allora l’AIDS falciava senza pietà) o di un bambino distrofico come giovane psicologo pieno di buona volontà e di fantasia ma, come dire, un po’ tanto acerbo per quelle incombenze che avrebbero richiesto almeno il livello di esperienza e di interazione col dolore che ho oggi (ma forse neanche questo basterebbe ancora).
Non lo faccio. Per pudore nei confronti di me stesso e per rispetto nei confronti dei miei comunque neravigliosi pazienti di Langhirano prima, Fidenza poi, che mi hanno dato enormemente più di quanto io abbia saputo dare a loro.
Poi uno smette di occuparsi del dolore degli altri perché il suo gli basta e gli avanza.
Un abbraccio.
Per Luca:
La tua esperienza dimostra ancora una volta che il dolore, provato in prima persona ma anche solo empaticamente, porta con sè dei tesori profondi, nascosti da un’abbagliante apparenza di mancanza di senso.
Ciò non toglie che agli amici come te non si possa augurare che gioia piena ed esclusiva.
Abbraccio.
Per Milvia:
Non c’era richiesta d’aiuto, in quelle due facce di un dolore piuttosto trattenuto e interiorizzato: mi veniva chiesta solo una cosa, dalle due donne, quella di essere trasportate fino a casa. Ho cercato di farlo nel modo più dolce e offrendo, per quanto possibile, un’atmosfera di rispetto profondo.
Per questo ciò che mi hanno lasciato, alla fine, è un senso di gravità e profonda umanità, ma non di angoscia.
Le vere difficoltà che personalmente avverto nel mio mestiere (limitando l’ambito ai contatti umani) derivano solo da atteggiamenti invadenti e aggressivi: quelli logorano e lasciano eredità di stress e inquietudine.
Grazie per il contributo, ricco come sempre.