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Inutile negarlo: in questi ultimi tempi la mia spinta espressiva tende verso lo zero, e la cosa è tanto più sgradevole quanto più che mai vivo, e sempre più ricco di spunti (come ha notato Sari nel suo penultimo commento), è diventato il club dei miei lettori-commentatori, a cui mi lega un grande affetto.
Evito in linea di massima le forzature, cioè di scrivere contro voglia, perché so quanto alla lunga porti a chiusure molto più drastiche.
Tuttavia c’è una scadenza che ho sempre rispettato da quando, ormai nove anni fa, mi son messo alla guida di un taxi, e che non voglio smettere di rispettare: la stesura e l’invio di un articolo per la rivista della Co.Ta.Bo., la nostra cooperativa.
Approfitto ancora una volta del nuovo articolo, che ho appena finito di scrivere (come sempre nell’ultimo giorno utile), per pubblicarlo qui in anteprima.
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La sera del dì di festa
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Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna.
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Con questi versi l’immenso Giacomo Leopardi, appena ventiduenne, dà inizio a uno dei suoi canti più famosi, intitolato “La sera del dì di festa”.
L’osservazione del paesaggio, come sarà poi in molte altre sue opere poetiche, fa da preludio musicale (e che musica!) a considerazioni via via più specifiche e personali, e a similitudini che attribuiscono alle scene descritte il valore del mito, cioè della rappresentazione di fatti eternamente connessi alla natura e alla storia dell’uomo.
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Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia.
Quasi due secoli dopo, quei versi sembrano riecheggiare, più vivi e veri che mai, nelle sere festive della nostra città.
E benché, con tutta probabilità, in nessuno dei tassisti in servizio vi siano le stesse doti di sensibile osservazione e di espressione artistica del poeta marchigiano, tuttavia l’osservatorio, rappresentato dalle nostre vetture bianche, sullo stato d’animo collettivo nella cosiddetta “città metropolitana”, non è da meno della stanza del giovane poeta sul suo “natio borgo selvaggio”.
Ed è facile, da quel nostro osservatorio, rendersi conto dell’eterno valore di quelle descrizioni liriche, di quanto cioè anche la nostra civiltà, nonostante la sbornia (e l’attuale spavento) di due secoli di progresso folle fino alla sconsideratezza, sia sempre e comunque soggetta ai cicli della vita condivisa, che siano stagionali, giornalieri o, come in questo caso, settimanali.
L’intensità univoca dell’atmosfera di quelle ore non credo abbia eguali nel resto della settimana, nemmeno in quelle, per tanti versi opposte, del sabato sera, che si protraggono a lungo in un crescendo di fuga dalla quotidianità nella ricerca più o meno trasgressiva, e sempre più etilica, del divertimento e dello sballo.
Noi si punta in stazione, sistematicamente, quasi non c’è bisogno di consultare il terminale radio-taxi, a caricare chi ha velocemente conquistato la pole position nella fila di persone in attesa, per portarli altrettanto velocemente a destinazione, lungo le vie piacevolmente scorrevoli della città.
Studentesse universitarie in compagnia, o più spesso da sole, con la valigiona sicuramente caricata, insieme ai vestiti puliti, con qualche recipiente di buoni manicaretti regionali preparati dalla mamma o dalla nonna.
Giovani militari di professione, in prevalenza quelli del Genio Ferrovieri della caserma di Castel Maggiore.
Professionisti pendolari settimanali (come fui anch’io per lunghi anni in altre città), con la borsa porta-computer oltre a quella degli effetti personali, che si recano al loro albergo o alla loro stanza in affitto.
Solitarie giovani fidanzate, o fidanzati, di ritorno dall’unica occasione di condivisione di vita con l’amato, offerta dal fine settimana.
Badanti straniere, filippine, moldave, ucraine, di ritorno dal giorno di libertà passato altrove.
Per tutti un’atmosfera grave, pensosa, dura. Il senso delle catene, della gabbia, del limite forzato rispetto alle più profonde e vitali aspettative di vita serena, se non di felicità.
E lo stato d’animo di tutti questi viaggiatori trova una perfetta consonanza nella quiete altrettanto pensosa della città e dei suoi residenti, ugualmente gravida di pensieri e di interrogativi alle soglie di una nuova settimana, e di tutti i problemi che essa ripresenterà implacabilmente.
Alle dieci in punto si apre un altro genere di gabbia, quella che per trentotto ore ha recintato l’area pedonalizzata del “T-day”; qualcuno di noi è sempre lesto a far da pioniere alla riappropriazione delle vie più centrali, ed è spesso premiato dalla presenza di qualche cliente già pronto e in attesa in Piazza Re Enzo. Le vie non appena ripercorribili, nella stagione invernale, sono incredibilmente deserte, e tali resteranno per il resto della nottata, quasi a disintossicarsi della sbornia di pedoni che le hanno solcate lungamente in piena libertà, nel contemporaneo mugugno rancoroso di anziani, disabili, commercianti, privati dell’abituale mobilità in maniera probabilmente troppo drastica, e che cercano sistematicamente sfogo nell’ascolto paziente del tassista.
A mezzanotte anche la stazione finisce di sfornare code di clienti; e la città collassa.
È in quei momenti, quando il tempo anche per noi sembra fermarsi, fra i palazzi così dolcemente familiari e così carichi di storia; quando le voci dei colleghi che escono dalla vettura per le consuete due chiacchiere hanno una risonanza e un volume del tutto particolari; quando guardi l’orologio e prometti a te stesso che la prossima corsa è l’ultima; ecco, è allora che senti una profonda riconoscenza verso un mestiere che ti ha permesso di uscire da quelle gabbie che rinchiudono la maggior parte della gente, e che ora puoi osservare con umana simpatia e autentica compassione.
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Immagine da: http://www.kirpi.it/Appunti/Giacomo-Leopardi-Recanati-Poesia
E a pensare che la tua “vena creativa” è a zero!!! (tutte balle, sei un Franz in pieno fermento “poetico”, semplicemente bravissimo!)
Un bellissimo pezzo il tuo, pieno di lirismo.
Un mega bacio!
Giò
E’ quasi superfluo dire che i tuoi entusiastici complimenti mi riempiono di gioia e di soddisfazione.
Quanto alla “vena creativa”, non ho mentito: probabilmente, in questa fase, sta correndo sotterraneamente, con qualche rara risorgiva.
Ciao, Giò, un giga bacio a te!
Io da un paio di anni sono fuori dalla “gabbia” come dici tu, ma forse ci tornerò, non mi è dato conoscere il mio futuro, grazie alla Fornero. E devo dire che la libertà mentale, più che fisica è veramente unica, anche se nel reale poi non si possono fare grandi cose. Ed è piacere leggere chi riflette su queste “gabbie” con stile. Bravo. Riri52
Grazie, cara Riri.
Credo che la libertà mentale permetta di intensificare la qualità, più che la quantità, del proprio agire; ed è certamente più importante, anche per contrastare la smania dell’efficienza e della produttività propria della società dei consumi.
E’ come leggere un libro, ci si immerge nell’atmosfera, si gioisce o si soffre per tutte
queste storie di vite sconosciute che ti passano accanto, poi sei arrivato alla
ultima riga e per fortuna c’è un lieto fine.
Sono rilassata, ora ci sogno sopra.
‘Notte.
Devo proprio dire che il ruolo di dispensatore di serenità non mi dispiace affatto; temo però che funzioni solo con controparti particolarmente predisposte…
Ciao, salutone.
Pargolo, mi unisco al coro degli elogi dei tuoi fans con particolare commozione, perché mi sembra questo uno dei post più belli fra tutti i tuoi (anche se ci hai abituato bene), e soprattutto perché io stesso provo quelle forti emozioni, di umana simpatia e autentica compassione, che tu hai così ben rappresentato. Io non sono uscito dalle “gabbie” della gente comune in virtù del lavoro di tassista, ma andando in pensione dal pubblico impiego: solo due mesi fa probabilmente, avrei “compreso” ma non “capito” la tua conclusione, che dà senso e nerbo a tutto il mini-racconto (laddove “capire” è “sentire”). Onore ai tuoi fans, che ci hanno dato la prova di una sensibilità così spiccata, di saper vibrare pur senza capire…dubito infatti che anche Loro godano del privilegio di veder le gabbie dall’esterno…
Grazie, Nuovo Maestro a riposo!
Sono ben contento di condividere con te, come con gli altri commentatori (indipendentemente dalle loro rispettive condizioni di esistenza) uno sguardo tutto sommato sereno sulle angustie della gente intorno a noi. E’ una condizione privilegiata, e nello stesso tempo più idonea a qualunque forma di impegno per il cambiamento della società e di tutte le sue gabbie.
Complimenti, sei davvero un osservatore acuto e poetico.
Grazie carissimo Carlo!
“Similitudini che attribuiscono alle scene descritte il valore del mito, cioè della rappresentazione di fatti eternamente connessi alla natura e alla storia dell’uomo”.
Sono almeno 40 anni che mi interrogo sugli effetti vieppiù scompaginanti che “le magnifiche sorti e progressive”, sulle quali già quasi due secoli fa il Grande Recanatese , hanno imposto ai ritmi biologici umani.
L’eredità culturale può modificarsi nello spazio di pochi anni se non di pochi giorni. Eventi come l’arrivo degli Alleati ad Auschwitz con la scoperta/conferma di quello che si andava vociferando ma nessuno osava credere; Hiroshima e Nagasaki (e non c’è bisogno di dire altro); l’enigmatico attentato delle Twin Towers; l’esplosione del bubbone Lehman Brothers, potenzialmente molto più potente del Black Tuesday di Wall Street del 1929.
Estraggo quasi a caso alcune date che hanno modificato in modo rapidissimo (per quelle avvenute in “strana diretta televisiva” si potrebbe dire: in modo istantaneo) il vissuto che tutto l’Occidente (come si diceva una volta, oggi l’espressione ha perso appeal, nè credo si tratti di un caso) ha avuto di se stesso.
Le ereditarietà biologiche hanno un’enorme inerzia perché il loro ritmo è quello lentissimo dell’Universo, per il quale 5000 anni sono poco più di uno sbatter di ciglia: quasi tutti i neurofisiologi postulano (la sicurezza non può darcela nessuno) che la corteccia cerebrale dell’uomo moderno abbia subito qualche modificazione significativa (poca cosa però, in realtà) rispetto a quella del pitecantropo, mentre è sostanzialmente identica a quella di un antico romano o greco (che forse, specie il secondo, la sapeva perfino usare meglio e arrivando a conclusioni più sensate). Ma quello che invece è ancora identico a 100.000 anni fa e non sembra aver subito alcuna evoluzione è il sistema delle emozioni, collegato sia alle strutture subcorticali come l’ipotalamo che all’apparato endocrino, quello che ci tempesta di ormoni tribali e ancestrali a volte gradevolissimi, altre volte imbarazzanti, altre volte pericolosi per sè stessi e gli altri (su testosterone e adrenalina potremmo disquisire per ore e ore, ma anche qui come per Hiroshima e Nagasaki non c’è bisogno d’altro).
La nostra parte animalesca è ancora fortissima: accanto a concetti ormai datati e obsoleti di cui è stato a suo tempo portatore, Freud è stato il primo che ha avuto il coraggio di gridarlo ai quattro venti (più o meno come Marx gridava “Guardate che il capitalismo ha implicite dentro di sè le stimmate stesse della sua crisi e successiva morte” ed Einstein griderà “Non possiamo trasferire all’infinitamente grande e all’infinitamente piccolo la fisica newtoniana che funziona perfettamente nel tinello di casa nostra”), aggiungendoci anche la sua (al tempo sconcia e immonda, e meno male che la Santa Inquisizione era già stata soppressa) rivelazione della sessualità infantile, la famosa idea del bambino “perverso polimorfo” piuttosto che angioletto privo di libido.
Mentre il buon senso del buon padre di famiglia direbbe di tenere a bada questa parte così sconveniente ed impresentabile della nostra psiche, un’ottica più ecologica, junghiana, batesoniana, o molto semplicemente rinaldoniana (non per manie di grandezza, ma anzi solo per dire che è quello che penso io e me ne assumo in toto la responsabilità) ci invita ad ascoltare il nostro preconscio, tutto quello che dorme sotto il vestito elegante ma spesso ipocrita e costrittivo della razionalità dell’Homo Sapiens che ha giustificato nei secoli guerre, stermini, oppressioni, sperequazioni, laidi imbrogli e oscene truffe collettive.
Solo una cosa aggiungerei: anche la mia spinta espressiva tende verso lo zero, non nel senso che sta sempre a zero, ma che da un mese a questa parte ho licenziato tre post nei quali mi ritrovo pienamente e dei quali vado lievemente ma senza vergogna fiero, dedicati nell’ordine a David Bowie, Mariangela Melato e il meno noto ma non meno meritevole Pierfrancesco Galli, tra i padri della psicoanalisi italiana, per fortuna almeno lui vivo e di ottimo umore. Gli altri fanno mucchio. Ma per me aggiornare il blog è, lo dico quasi dolorosamente ma è la triste verità, uno dei pochi momenti gradevoli delle mie problematiche difficili giornate. E quindi persevero. Quando posso, commentare i post di un amico mi dà la medesima soddisfazione che avrei scrivendone uno tutto mio. Se non di più.
Come direbbe un oratore troppo verboso “Stavolta ho finito davvero”.
I tuoi excursus vertiginosi sulla storia dell’umanità e dell’universo sono sempre preziosi, a sollevare un po’ la visuale dai piccoli o grandi affanni e preoccupazioni quotidiane.
Quanto all’invito ad ascoltare il nostro preconscio, mi permetto di aggiungere agli aggettivi di tale ottica (ecologica, junghiana, batesoniana, rinaldoniana) anche un convinto “franziana”, dal momento che questo è stato ed è per me un autentico principio ispiratore dell’arte del vivere.
Un grazie per il consueto ricco contributo!
puoi mica scrivere qualcosa anche per il bollettino dell’ordine dei medici di padova? 🙂
Conosco qualcuna sicuramente più ferrata di me, e almeno altrettanto capace nell’allineare efficacemente parole, frasi e periodi. 😉
Il nostro Franz ha intinto la penna nel calamaio di Leopardi e la prosa mischia pari alle rime che dolcemente sposano per la gioia di chi legge. Che capolavoro!
Nel leggerti, m’ha preso una dolcezza struggente e posso dire che solo un artista può produrre tanta emozione.
Ha ragione Milvia, il giornalino cotabo è sicuramente orgoglioso di averti fra le sue pagine.
Ho trascorso una bella mattina e ora leggo questa tua… che giorno bello questo.
Sari
P.S.: Se questo è il risultato della poca spinta espressiva, chissà che farai quando tornerà pienamente.
Ma che belle parole mi riservi, cara Sari!
Inutile dire che mi danno un enorme soddisfazione; e penso che se il giudizio di capolavoro è soggettivo e molto opinabile, è invece inconfutabile quanto mi dici sulle emozioni che il mio breve brano ti ha suscitato, al punto da costituire un elemento di gioia della tua giornata. Come peraltro è stato per me leggere il tuo commento… 🙂
Il giornalino della Co.Ta.Bo deve essere orgoglioso di ospitarti…
Ma non voglio farti troppi complimenti, tanto lo sai già cosa penso della tua capacità e sensibilità. Mica mi posso sempre a stare a ripetere!
Un abbraccio a te e una piccola carezza sul muso della Cavallona (che sono certa, è molto orgogliosa anche lei, del suo compagno di viaggio).
Anche se riconoscimenti ufficiali non sono nello stile di una cooperativa, devo dire che, di tanto in tanto, mi arrivano gli apprezzamenti di singoli colleghi. E la cosa, oltre a farmi naturalmente piacere, mi è preziosa per difendere la mia immagine, che la mia ritrosia e timidezza rischierebbero facilmente di veder deteriorare.
Grazie dei complimenti, anche se per questa volta sono solo accennati…
Abbraccio ricambiato da parte mia, e consueto nitrito e starnuto da parte della Cavalla.