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Il sole di inizio agosto, con l’approssimarsi della sera, cominciava ad addolcire le sue tonalità, mentre la temperatura dell’aria si manteneva elevatissima.
Una chiamata da uno dei paesi della cintura suburbana della città, nel mese in cui sempre il lavoro scarseggia, è benvenuta.
Ad aspettarmi, nel bel mezzo di una strada quieta e indolente, un signore dall’aspetto distinto.
E dai modi gentili, nel darmi le indicazioni: “Restiamo qui in paese, andiamo a un bar a prendere la ragazza, che si è infortunata a un piede, le do io le indicazioni.”
“Poi andiamo al pronto soccorso?”
“No, torniamo qui da me. In realtà è stata in cura al Rizzoli fino a pochi giorni fa, ma oggi è caduta e il dolore si è riacutizzato.”
Strano, penso fra me, di solito vanno tutti al pronto soccorso, luogo deputato, sia pure a costo di attese epocali, per la ricerca di sollievi farmacologici e permessi per il lavoro.
Le sue indicazioni sono precise e siamo presto in vista dell’insegna del bar.
Scorgo una signora in piedi, l’aspetto trasandato, stranito e l’espressione dolente, la corporatura leggermente abbondante e non certo da ‘ragazza’. Ma è proprio lei.
“Preferisce stare davanti?”
“No, meglio dietro” è l’uomo a rispondermi, “così può allungare la gamba. Salgo io davanti.”
Un po’ a fatica la donna si dispone nei sedili.
Ben presto, una volta ripartiti e invertita la marcia, comincia a lamentarsi, con discorsi un po’ sconnessi che rinuncio a decifrare, anche se per rispetto tengo molto basso il volume dell’autoradio.
Parla di accuse infondate che le sono state rivolte, che avrebbe vomitato dentro un bar, parla di un tassista e di un poliziotto non capisco con quali ruoli nella sua vicenda, piagnucola e maledice ripetutamente e rabbiosamente l’intero paese di cui stiamo percorrendo le vie in un tardo pomeriggio di agosto.
Ma i guai veri giungono quando siamo nuovamente presso l’abitazione dell’uomo.
Perché ‘la ragazza’ non vuole scendere, vuole andarsene da quel paese di merda, non un minuto di più, si rifiuta di tornare in quella casa.
L’uomo, dopo aver pagato la corsa, cerca di convincerla: esce e va ad aprire la portiera posteriore per forzare la volontà della donna, cosa che che fa dapprima solo a parole, in modo sempre più imperativo:
“Dai, scendi. Avanti scendi! Vuoi scendere?” alzando la voce in un crescendo.
La donna invece mi dice di portarla via, e mette una banconota da dieci nella cavità portaoggetti sotto il freno a mano.
Ma intanto l’uomo le ha afferrato un braccio e ora il tentativo di forzatura è anche fisico, ma con scarsi esiti.
La scaramuccia dura a lungo, lei riesce a fare resistenza e non si muove, continuando a piangere e imprecare.
Mantengo un silenzio molto attento, e per il momento rispettoso.
Intanto nella stradina prima deserta, neanche a farlo apposta, ora sono già tre le auto in coda ostacolate dalla nostra presenza; hanno capito la scena e rinunciano a recriminare a suon di clacson, finché una signora alla guida dell’auto immediatamente dietro ci si fa incontro, e ci chiede con gentilezza di spostarci un po’ più avanti di lato.
La disperata accondiscende chiaramente, mostrando di essere del tutto lucida, l’uomo pure, e così posso spostare subito la Cavallona di qualche metro e togliermi d’impaccio.
Ma la brutta manfrina ricomincia, nessuno dei due si dà per vinto e lui riprende i toni e i modi autoritari propri di chi è in evidente difficoltà, che cominciano a darmi un certo fastidio.
Per fortuna a un certo momento la prende persa: “E allora vaffanculo!” le impreca liberatoriamente sbattendole in faccia la portiera, e allontanandosi finalmente verso casa.
“Dove andiamo signora?” le chiedo con calma e profondità, cercando di mostrarle che sono completamente dalla sua parte, che è pur quella di vittima di una sorta di aggressione.
Piagnucolando mi chiede di accompagnarla solo oltre l’angolo della strada, nei pressi di un distributore di benzina.
Dove, con uno sguardo negli occhi, le offro il mio ascolto.
Si sfoga a lungo, tornando su vicende di accuse infondate ai suoi danni, che lei non è ubriaca, che in questo paese lei non vuole starci più neanche un minuto, che qui tutto è in mano alla mafia cinese e armena.
Mi racconta del suo male al tallone, che mi mostra, effettivamente deformato, sollevando la gamba, senza pudore per quella gonna leggera e trasandata che solleva scompostamente.
Vengo a sapere del suo impiego alla cassa di un supermercato (“Se lo tenga stretto, di questi tempi!”) e che il suo ex-marito le passa solo duecento euro per gli alimenti.
Ma quando le chiedo dove ha intenzione di andare, mi dice che non lo sa.
“Non ha proprio nessuno?”
Mi elenca, sempre con quel suo eloquio biascicato e confuso, un accumulo tale di casi infelici, da rendere ben difficile qualsiasi parola di conforto e speranza: entrambi i genitori (separati) malati di cancro, la madre anche di Alzheimer, un figlio che non la vuole più vedere, tutta la sua roba lasciata nella casa dell’ex-marito il giorno in cui se ne è andata.
“Ma perché non torna da quel signore, mi è sebrato gentile.”
“No, non voglio più stare con lui, non voglio.”
E quando insisto mi zittisce raccontandomi che più di una volta le ha fatto violenza, che le ha rotto anche il naso; “ma non lo dica a nessuno…”
Taccio qualche secondo mentre lei continua sommessamente a singhiozzare, poi cerca di accendersi una sigaretta ma non trova l’accendino.
“Prenda questo, è uno dei tanti che mi lasciano i miei clienti distratti, lo tenga.”
Poi le propongo: “Senta, la porto da Padre Marella, lì un posto per dormire glielo danno.”
Non vuole, è molto decisa, “mi lasci qui”.
“E dove va, e dove passa la notte, non posso lasciarla così, a dormire sotto i ponti.”
“Non lo so, non lo so…”
“Senta, suo padre è in ospedale o in casa?”
“E’ a casa.”
“Allora andiamo da lui…”
“No, no, non voglio che mi veda in questo stato…”
Sebbene con toni ben più umani della precedente, mostra che anche questa nuova scaramuccia verbale sarà inevitabilmente lei a spuntarla, a fronte di qualsiasi mia recriminazione.
Me ne rendo conto, e a malincuore mi rassegno, e anzi a questo punto mi sembra giusto sottolineare il mio ruolo:
“Guardi ora devo lavorare, la lascio qui come vuole lei, ma ci pensi bene.”
Accondiscende e insiste per pagarmi tutto il tempo di lavoro che le ho dedicato.
“Mi ha già dato dieci euro prima, sono giusti, vede?” e le mostro il tassametro che segna poco più di quella cifra, tacendole il dettaglio di averlo tenuto a lungo spento.
Le porgo la mano: “Si faccia forza, signora, io vedo nel suo viso che di forza ne ha, deve contare su quella, e vedrà che anche le situazioni più disperate piano piano possono risolversi.”
Scende a fatica, ribattendo qualche argomento farfugliato al mio augurio, ma quando è fuori, in piedi, inatteso vedo l’accenno di un sorriso per me su quel volto inebetito dalle disgrazie.
“Spero di rincontrarla presto” le dico ancora “e che le cose vadano meglio.”
Il mio auspicio, o almeno solo la prima porzione cioè di incontrarla nuovamente, si compirà, incredibilmente, non più di quattro sere dopo.
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Immagine da: http://www.medicinalive.com/il-nostro-corpo/gambe-e-piedi/dolore-tendine-achille-cure/
Di disperati il mondo è assolutamente pieno: ci sono intere nazioni dove la disperazione è un fluido pervasivo che occupa le strade, le città, le case, si infiltra negli spazi e attraversa i tempi e le epoche; e ce ne sono altre dove la disperazione sembra avere la peggio, scacciata da un finto benessere cialtrone e istrionico che sorride dalle vetrine, dai manifesti, dagli schermi e dai display, ma non demorde. Come la Madonna Disperazione di Dalla aspetta senza dare nell’occhio, magari sbucciandosi una pera pronta a sedersi al tavolo di un ragazzino per esporgli le mirabilie (e nascondergli i tormenti) di una possibile anestesia.
La tua eroina (possibilmente senza doppi sensi) vive, come una miriade di disperati d’Occidente, a cavallo di due mondi, uno che la sfiora ma non le appartiene più e forse mai le è appartenuto; e un altro, che però non è un vero mondo, è un sottobosco, una corte dei miracoli un po’ alla Bukowski e un po’ alla Kafka in cui (debitamente stonati) ci si sente a volte i primi degli ultimi e ci si accontenta.
E a volte, una disperata come lei, trova esistenza nella narrazione di chi, vivendo e lottando nel mondo dei primi, sa guardare alla serie B (o forse in questo caso a categorie ancora inferiori) con umana pietas e solidale umanità.
Certi, noi lettori àvidi e devoti delle tue pagine, che il seguito ci emozionerà e commuoverà ancora di più.
Buona estate.
La tua lettura del racconto ha un taglio sociologico che gli dà luce e profondità, con mio grande piacere e soddisfazione, dato che come sempre ho cercato semplicemente di fare una radiocronaca fedele (sia pure a grandi linee) di quanto successo.
Posso anticipare, per le curiose (e scusa se lo faccio qui), che il seguito avrà luci e atmosfere, anche psicologiche, molto differenti.
Quanto a racconti di disperazione diffusa, sperando di non averlo già fatto, vorrei segnalarti uno scrittore greco di altissimo livello, che si chiama Kristos Ikonomou, e questa sua breve raccolta.
Un buon Ferragosto a te!
Che mestiere difficile il tuo, Franz, chissà che sarà successo a quella signora.. mi siedo qui ad aspettare il seguito assieme ad Amanda. :)))
Ciao!
Visto quanto ho appena risposto alla cara Amanda, penso che tu possa tranquillamente alzarti e riprendere a osservare il mondo, per poi pubblicare le tue considerazioni, sempre profonde.
Ciao! 🙂
debbo aspettare una settimana?
Non so, temo di sì: la voglia di narrare è più che mai viva, ma il tempo libero, per farlo come si deve, più che mai morto.