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Agosto, si diceva, è il mese in cui la nostra attività collassa, di pari passo con il fervore delle attività e del movimento cittadino, che lascia il posto a una quiete sorprendente e affascinante.
Erano passati quattro giorni dall’incontro con quella donna, che per disperazione aveva deciso di rinunciare a un tetto, e la serata di lavoro si stava concludendo in modo sufficientemente fruttuoso, in rapporto alle ridotte aspettative.
Di solito intorno all’una cerco di essere a casa, ma questa era la vigilia di un mio turno di riposo, e così avevo deciso di cedere a uno strano sentimento che aveva a che fare, prima ancora che con la scommessa su una nuova corsa per arrotondare ulteriormente l’incasso, con l’indolenza, la passività, o forse la voglia di fondermi, anima corpo e vettura, con la notte austera e silenziosa.
Tornare in centro proprio no, mi ero diretto al posteggio all’inizio di via Arno, che avevo trovato sede di uno dei rari e residui fermenti di vita: davanti all’attigua ‘crêperie’, come sempre aperta fino a molto tardi, una piccola squadra di ragazzi e ragazze se ne stavano a chiacchierare e scherzare, con un piacevole senso di pigro smarrimento del tempo molto simile al mio.
Quando all’una in punto il suono di una nuova chiamata radiotaxi mi ha riscosso dal torpore e dall’osservazione divertita della scena, mi sono sentito premiato per aver osato scommettere, ma anche, chissà perché e come, colpito dal presentimento di una corsa complicata, quasi a punire un mio peccato di tracotanza.
Via San Lazzaro a San Lazzaro, con le strade libere, si raggiunge da via Arno in pochi minuti. Soltanto non mi rendo conto, finché non lo constato coi miei occhi, che il numero civico è esageratamente alto per quella strada.
Che fare? Provo a richiamare il cliente, tramite il numero nascosto nel terminale. Strano messaggio di deviazione di chiamata, qualche squillo e poi segreteria telefonica. Interrompo, riprovo; stesso esito.
Chiedo la linea con la centrale, e intanto mi dirigo a cercare lo stesso civico sulla via Emilia; corrisponde a un anfratto buio in cui è difficile immaginare un po’ di vita o un cliente in attesa.
Ecco la chiamata dalla centrale, una vocina molto spigliata per quest’ora si dichiara in ascolto.
Le racconto come stanno le cose, compresi i tentativi che ho già fatto.
“In effetti” ribatte gentile, “era una signora con difficoltà di dizione.”
“A questo punto” replico “me ne vado, se dovesse richiamare e sono ancora in zona torno a prenderla.”
Resto sulla via Emilia e mi avvio, ma in direzione opposta a quella di Bologna, obiettivo casa mia.
Dopo un paio di minuti arriva la rettifica:
“Si era sbagliata, è in via Caselle, sta aspettando davanti alla pizzeria Il Galeone.”
“Va bene ci vado.”
Inverto nuovamente la marcia e dopo il tragitto a ritroso e un’inutile attesa al semaforo, imbocco la laterale, rapidamente verso la stazione di San Lazzaro. Il Galeone ha le insegne spente, ma non mi è difficile scorgere, nei pressi, l’unica persona viva (o quasi); è sdraiata per terra, e nell’avvicinarmi la riconosco.
Quando mi vede si alza da quell’assurda posizione, poi entra questa volta senza troppi sforzi.
“Buonasera, mi porta al Sant’Orsola?”
“Al pronto soccorso?”
“Sì. Ma guardi che ho solo diciotto euro, se non bastano le lascio la carta d’identità poi gliele do domani, l’ho già fatto con un altro tassista.”
“Diciotto euro bastano e avanzano. Ha visto che ci siamo incontrati di nuovo?” le dico gioviale.
Ribatte con sorprendente freddezza, come fosse la cosa più normale del mondo; avverto ben presto l’odore dell’alcol diffondersi in tutto l’abitacolo.
“Spero che mi lascino andare a dormire, perché domani pomeriggio devo riprendere a lavorare. Se no mi faccio fare un permesso.”
La parola è sempre confusa e farfugliata, ma questa volta il tono non è quello disperato della volta precedente: è come svagato, distratto.
Anche nel raccontarmi di aver rifiutato i documenti a una pattuglia della polizia, mentre aspettava: “Non sono mica ubriaca” gli ho detto.
“Ma è sicura che ci si può rifiutare?”
“Sì, se uno non è ubriaco.”
“Allora, ha poi trovato un posto dove dormire?”
“Sì.”
“Dove?”
“A casa.”
Rinuncio a capire.
Poi si mette quieta, io cerco di correre, sono stanco e spero di cavarmela, questa volta, senza ulteriori problemi.
“E’ aperto questo bar…” esclama a bassa voce, o chiede a sè stessa, mentre sfrecciamo davanti a un locale illuminato; non le rispondo.
“Le sono arrivati” mi chiede poi all’improvviso “i ringraziamenti?”
“I ringraziamenti? Che ringraziamenti?”
“Per la volta scorsa: dopo ho richiamato la Co.Ta.Bo. e ho detto di ringraziarla.”
“No, nessuno mi ha detto niente.”
Quando ormai siamo vicini all’obiettivo, mi domanda se ci sono dei bar aperti in zona.
Ci penso un attimo: “Sì, c’è quello di Porta Mazzini, ha cambiato gestione, ora c’è una coppia di cinesi, hanno delle bellissime paste.”
“E’ pieno di puttane.”
“Cosa vuol mai, a quest’ora in un bar vicino ai viali mi sembra normale.”
“Beh, allora andiamo là, che ho voglia di un bicchiere di vino.”
“Niente pronto soccorso?”
“No andiamo al bar.”
Giunti di fronte al locale, che è alla nostra sinistra, inverto la marcia e poi parcheggio nei pressi senza difficoltà. Ho già impulsivamente fermato il tassametro quando mi chiede di accompagnarla dentro; molto a malincuore la accontento.
Ecco si mette male anche stavolta, anzi peggio. Provo a buttarla sul lato economico:
“Ma è proprio sicura di spendere così i suoi soldi, che dopo non li ha per pagare il taxi?”
“Gliel’ho detto, se non bastano le lascio la carta d’identità, l’ho già fatto una volta con un altro tassista.”
Entro restando a debita distanza.
Le forti luci e quel po’ di animazione di qua e di là dal banco mi giungono come una sferzata di vita nella notte quieta e stranita di inizio agosto.
Dopo un primo sorso al calice di bianco mi si avvicina: “Non mi sento a mio agio, andiamo fuori.”
Continuo a scortarla finché non trova un angolo di portico di suo gradimento, dove bere indisturbata il suo bicchiere e accendere una sigaretta.
“Non trovo l’accendino” mi fa.
“Mi dispiace” ribatto con inutile ironia, “ne avevo uno in macchina ma l’ho regalato.”
Si fa risolvere il problema da un ragazzo che cammina veloce sotto il portico, evitando di rivolgersi a un paio di strani tipi, dall’aspetto un po’ mafioso, che oziano chiacchierando davanti all’entrata (uno di loro, nel vedermi uscire con quell’improbabile compagnia, mi aveva inviato un sorriso d’intesa e compatimento nei confronti di lei; non avevo ricambiato).
“Vede” mi fa fra un sorso di vino e una boccata di fumo, “quelli sono dei magnaccia, uno mi punta sempre, mi fanno schifo.”
Osservo, con segreta impazienza, il lento accorciarsi della sigaretta e del livello di vino nel calice.
Quando finalmente entrambi sono terminati, mi fa: “Riporto dentro il bicchiere, è meglio.”
“Certo, anche perché dovrà pagarlo, no?”
“No, ho già pagato prima.”
Il barista cinese, benché molto affaccendato, ricambia il saluto della disperata con consumato e sicuro garbo.
Poi finalmente ci dirigiamo verso la Cavallona, illividita dalla luce dei lampioni nell’attesa paziente quanto la mia.
Una volta saliti, riaccendo il motore e innesco la marcia; via, forse davvero ne stiamo uscendo.
Resta solo un ultimo ostacolo, il pagamento; in cuor mio sono ben contento di aver bloccato anzitempo il tassametro, che segna diciassette e settanta, evitando forse fastidiose code a questa storia.
Il telone d’entrata del pronto soccorso si apre automaticamente davanti a noi come un sipario.
“Ecco, l’ingresso pedonale è là” le mostro per superflua indicazione.
“Quant’è?”
“Sono diciassette e settanta.”
Li ha, per mia fortuna e nonostante la spesa aggiuntiva al bar, che evidentemente era inclusa nel suo preventivo: me ne dà diciotto e mi dice di tenere il resto.
“Allora la saluto, cerchi di stare bene.”
“Arrivederci, chissà se mi lasciano andare a dormire, se no chiedo un permesso per il lavoro.”
E si allontana verso l’ingresso pedonale.
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Immagine tratta da: http://www.sopralaripa.com/category/abbinamento-vini-e-cibo/
Uh, leggere questo tuo racconto a puntate è stato un parto!
Complimenti vivissimi perché il tuo stile mi ha avvolto come non mai, e soffrivo empaticamente per te, quasi mi fossi ritrovato nei tuoi panni.
Di svitati e svitate ce n’è pieno il mondo, ma temo che solo nei film sia possibile, per dei ‘pinchi pallini’ come noi, salvarli: nella realtà si viene inghiottiti nel loro vortice di delirante disperazione, finendo invischiati in vicende ben poco allegre.
Ad ogni modo, correggimi se sbaglio, ma dal tuo racconto sembra trasparire un certo fascino da quella figura sicuramente negativa e ‘perduta’…
Caro Carlo, sei sempre gentile e generoso nei tuoi apprezzamenti, grazie!
Penso anch’io che la realtà sia ben diversa dai film, e che il rischio di venire inghiottiti in vortici di delirante disperazione sia, molto prosaicamente, il primo e più urgente pensiero in questi casi.
Non solo “salvarli” è impossibile, ma a volte neppure aiutarli, tutt’al più si può gettare loro un seme di speranza e di umana comprensione che, chissà se, come e quando, possa dare frutti.
Quanto al fascino di quella persona, credo che si tratti di un fenomeno esclusivamente narrativo, perché in realtà, di possitivo, ho recepito da lei solo vaghe tracce di dolcezza e onestà.
Buona partenz ma po…dop agmanca la “suspance” A voi la terza pert…. At salut G
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A m’spiès dimondi, ma a sper dabban che la terza pert l’agn i seppa brisa…
At salut!
“Quanta sofferenza…” direbbe con leggero accento vicentino una suora adusa a comprendere i disadattati.
Ma adesso che questo sottopopolo della notte, nascosto o invisibile alla luce del sole e che solo con le tenebre, come i mostri dei racconti di Lovecraft o Poe, trova il coraggio di manifestarsi, allunga i suoi pseudopodi e di quando in quando cattura e arruola qualche ex benestante travolto dalla crisi, questa sofferenza va capita e aiutata con strumenti rigorosamente laici e non pietistici.
Nessuno si senta immune e nessuno si senta escluso.
Quando viene meno il rumore del giorno, o quello dei mesi lavorativi, ecco che si manifesta ai nostri occhi in tutta la sua evidenza il sottobosco di umanità diversamente serena, e con quello le contraddizioni e la spietatezza di una società fondata su valori sbagliati e corrotti.
La solidarietà, come la buona politica, deve essere coltivata e organizzata dalle persone che non si sono fatte forgiare da tali falsi valori, e per questo sono particolarmente libere.
Un salutone dal Cadore.
generoso Franz e bravo, anche a raccontarci la vicenda.
Grazie, cara Mirella, i tuoi apprezzamenti, sia umani che letterari, mi sono sempre particolarmente graditi.
Caro Franz, quanta pazienza hai! D’altra parte, il tuo lavoro la richiede. E poi, incontrando tante persone diverse, riesci a studiare le infinite sfaccettature dell’animo umano. Aggiungo che concordo con quanto hai scritto in un commento: la linea di frontiera fra normalità e deriva è tutt’altro che netta e insindacabile. Bisognerebbe ricordarlo più spesso.
Apprezzo e condivido il tuo atteggiamento positivo nel valutare gli aspetti positivi del mio lavoro, anche a fronte di incontri a volte difficili; e in effetti gli aspetti positivi ci sono, molti e sostanziali.
Un caro saluto dalle Dolomiti (e, a ben pensarci, anche in una settimana di vacanza da queste parti ci sono molti aspetti positivi… 😀 ).
Ciao Franz già l’altra volta passavo da queste parti, ho aspettato la seconda parte di questo racconto. Di disperati ce ne sono tanti in giro di giorno come di notte. In questo periodo agostiano nelle strade semideserte sono ancora più evidenti. Uno staziona costantemente sui gradini di una chiesa in San Vitale non si capisce neppure più che vestiti indossa…da quanto è malmesso e sporco. Non gli ho mai detto niente ma quando lo osservo alla fermata dell’autobus non riesce a stare seduto su quei gradini e cade da tutte le parti da quanto è ubriaco e forse drogato… Certo che a te è capitata una “bella” avventura lavorativa e non puoi scegliere di guardare da lontano, senza coinvolgerti perché non puoi sceglierti i clienti. Impari quando giungi a destinazione e li carichi con chi hai a che fare. Ciao e buona fortuna.
Ciao Trudy, benvenuta per queste strade.
E’ proprio vero, il silenzio e l’immobilità cittadina di agosto mettono in particolare risalto gli abitanti dei portici e, più in generale, le persone meno integrate socialmente.
Penso che sia un esercizio utile a noi osservarli, e a loro, come sentii in alcune testimonianze radiofoniche, ricevere un minimo di attenzione disinteressata, che semplicemente comunichi il fatto di riconoscerne l’esistenza come individui unici, come persone.
Nel caso del mio lavoro, naturalmente, la cosa va da sè, quando capita la non facile esperienza di trovarsene uno o una a bordo.
Grazie per il contributo!
Che vita avrà avuto sinora questa signora per essersi ridotta così? Tu sei bravo a districarti in queste situazioni, Franz, e sei anche generoso.
Poco tempo fa ho preso un taxi proprio in via Arno… la prossima volta cercherò la Cavallona. E te, naturalmente. 🙂
Ciao narratore.
Ciao Sari, in fondo questa volta molti elementi drammatici, relativi alla situazione contingente di questa malmessa signora, erano noti, dopo i suoi sfoghi nel precedente incontro. Ciò non toglie, e qui ti do ragione, che sicuramente molti altri, altrettanto scabrosi, sono con tutta probabilità presenti nel suo corredo di esperienze passate, in anni vicini e lontani.
Raramente mi fermo in quel posteggio, è molto più facile incontrarmi in centro, e magari una volta o l’altra capiterà di conoscerci di persona! 🙂
vite al margine… o oltre
Certo, ma in fondo la linea di frontiera fra normalità e deriva è tutt’altro che netta e insindacabile.