Itinerario: Savigno – Montombraro – Rocca Malatina
(23 luglio 2016).
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Ovvero: ‘Fantozziana Franz e il Navigatore Maledetto’.
Sì, perché in realtà mi piacerebbe tanto raccontare di epiche avventure affrontate e superate con sprezzo del pericolo, e invece mi tocca esibire tutti i miei limiti; nella fattispecie, un senso dell’orientamento da primato mondiale. In senso di mancanza, voglio dire.
Ma andiamo con ordine.
La tappa di oggi, per motivi logistici (cioè garantire possibilità di alloggio ogni sera) era stata prevista breve, al pari solo dell’ultima, che mi porterà da Massa a Forte dei Marmi. Secondo il già citato e decantato mio Virgilio telematico (cioè Google Maps) si sarebbe dovuta concludere dopo solo tre ore e tre quarti di cammino, così da regalarmi un intero pomeriggio di riposo.
Due ore e mezza da Savigno a Montombraro, poi un’altra ora e un quarto fino a Rocca Malatina.
È andata, come vedremo, un po’ diversamente…
Il tempo era imbronciato, questa mattina, come da previsioni. Coperto inesorabilmente, con una pioggerella leggera che, comunque, non bastava a generare dubbi sulla possibilità di andare.
E alle otto e tre quarti, orario comodo per una tappa comoda, ho lasciato l’albergo di Savigno e mi sono incamminato. In tasca, come ieri, un foglietto con le indicazioni passo passo trascritte da Google Maps, opzione mi muovo a piedi, quella che tante soddisfazioni mi aveva appena dato.
Il paesaggio è smorto, mentre comincio a risalire la valle del Samoggia (lungo una strada molto più stretta e priva di traffico di quanto non mi aspettassi) e non invita certo a scattare fotografie. Ma va bene così, oggi è una tappa di semplice diporto, che si può affrontare senza pretese e con calma.
Quando la pioggia, anziché smettere, sembra voglia fare sul serio, ho la fortuna sfacciata di trovare subito un comodo riparo, una piccola costruzione in muratura aperta su due lati, adibita a magazzino. Mi fermerò ad aspettare, posso permettermelo.
Il tempo di togliermi lo zaino e sostituire la maglietta con quella a maniche lunghe, felpata e asciutta, che subito sento, e poi vedo, un fuoristrada arrestarsi e parcheggiare proprio davanti al capanno.
“Buongiorno, mi son messo qui per ripararmi dalla pioggia…”
“Ha fatto bene” ribatte condiscendente l’arzillo anziano, che si mette poi a trafficare con dei contenitori di plastica, fra il bagagliaio e la zona esterna alla mia dimora d’emergenza.
Buffo tipo, lo sento parlare incomprensibilmente da solo; l’unica cosa chiara sono le bestemmie con cui di tanto in tanto condisce i suoi ragionamenti.
Poi la pioggia smette, e si può ripartire.
Una deviazione, prevista dalle mie indicazioni, mi fa imboccare una via più ripida. Ormai conosco lo stile del mio navigatore, e sto al gioco volentieri.
Ricompare in me, mentre procedo nel continuo divenire dei paesaggi, quella sottile euforia che avevo provato nelle prime ore della tappa di ieri. Prendo fra me e me il solenne impegno di dedicarmi a lunghe camminate come questa per tutti i miei anni a venire, finché la salute me lo consenta.
Dopo un lungo tratto, il percorso si riimette nella via principale, fino a un cartello che ne dichiara il divieto di accesso in caso di neve.
E infatti di lì in poi diventa sterrata. Sempre più strano… la via Samoggia, quella per andare a Montombraro, ha l’aspetto di un tratturo…
Mentre la pioggia ogni tanto cerca timidamente di rifarsi viva, il percorso campestre è diventato panoramico e aereo, sospeso fra valli contigue. Di tanto in tanto diramazioni scoscese portano a rare abitazioni private.
Procedo nell’attesa della deviazione, a destra, in una via di cui spero di identificare il nome, mentre le perplessità aumentano.
Consulto ancora il navigatore, e dalla risposta mi sembra chiaramente di interpretare che la vera via Samoggia corra parallela, più a valle.
Prudentemente faccio dietro front, e poi cerco di correggere il tiro al primo bivio importante, e mi rimetto di buona lena in marcia, in discesa. Aspetto la benedetta deviazione, ma, procedendo baldanzoso, dopo un po’ vedo a valle, sulla mia destra, un paese che sarà certamente Montombraro, il mio traguardo intermedio.
Sono ormai le dodici e trenta quando compare finalmente una deviazione importante sulla destra, che imbocca un grande ponte.
Il nome dell’attesa via non c’è. C’è invece, frontale rispetto all’attraversamento del ponte, un grande cartello turistico.
‘Benvenuti a Savigno’.
La botta nello stomaco è forte, umiliante, annichilente: tutto da rifare.
Qualsiasi altro viandante al mondo avrebbe colto i segnali di stare tornando indietro. Io no, ma mi conosco.
Non mi resta che mettermi di buona lena a cercare di recuperare il tempo buttato.
Non è più il caso di fare i raffinati. Interrogo il mio nocchiero, e questa volta gli dico che sono un’automobile.
E infatti quella variante a sinistra non mi viene più proposta, avanti tutta per via Samoggia.
Peccato che, dopo un bel po’ di tragitto, e dopo aver ritrovato alla mia sinistra la fine della variante percorsa più di tre ore prima, mi ritrovo esattamente sugli stessi tratturi, e con gli stessi dubbi…
Ne verrò fuori, con alcuni tentativi ed errori, e pagando la moneta di una grande quantità di tempo ed energie spese in questo primo pomeriggio, che intanto si è rifatto afoso.
Telefono all’albergo: prima delle diciotto non aspettatemi, comunque arrivo.
“…Speriamo”, evito di aggiungere.
Ne sono venuto fuori, dicevo, anche grazie al metodo tradizionale “Vado bene per Montombraro?”. Lo chiedo al padrone di tre cani di media taglia, solo un attimo dopo di esserne salvato dai loro furibondi attacchi.
Mi sono dilungato molto fin qui, in quello che è stato il tema conduttore della giornata; dovrò così rinunciare al racconto dettagliato del resto di questa terza tappa e delle sue molte luci, rese ancor più vive dal pigro ricomparire del sole: il lungo avvicinamento in salita al paese di Montombraro, poi il suo interno, con tutte le ville agghindate, chissà perché, con nastri color ciclamino (e ritemprante pausa tè al limone in un bar).
E poi ancora l’aprirsi solenne del paesaggio, ormai in pieno Appennino Modenese, lungo il rettilineo che mi porterà verso la destinazione di Rocca Malatina. Ancora indicazioni richieste con metodo classico, a scacciare i fantasmi di un nuovo smarrimento, e la gentilezza di un’intera famiglia, nel giardino della loro villa, nel fornirmele.
Rendermi conto che il viaggio mi ha ormai portato ad ascoltare accenti diversi.
La strada, asfaltata, comoda, che torna infine ad infrattarsi e a salire dentro una valle stretta, prima dei lungamente agognati segnali di vita del paese a cui sono diretto.
Varco la soglia dell’albergo alle diciotto, nove ore e un quarto dopo la partenza.
Niente male, per una breve tappa di trasferimento…
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