Fra le opzioni logistiche di Mortara, avevo scelto la Foresteria di Re Artù soprattutto per l’aria condizionata, poi per il cosiddetto “kit di colazione” in camera, associato alla possibilità di ripartire presto indisturbato.
A dir la verità, l’interlocutore telefonico (che poi mi aveva dato il numero della signora che gestisce l’accoglienza) non mi aveva fatto una buona impressione, con il suo tono spavaldo da camorrista napoletano.
Le condizioni però erano quelle desiderate.
Dunque la vedo arrivare. Giovane, aspetto gradevole, fianchi un po’ larghi, gentile quanto basta. Con quel suo accento inglese, mi dà le indicazioni di massima, poi fotografa il mio documento, mi chiede i cinquanta euro concordati, mi chiede se mi serve la ricevuta (per tagliar corto le dico di no) e mi porta al primo piano.
Si mette a gironzolare, poi, con credibile costernazione, mi dice che è successo un casino.
Cioè che il condizionatore è guasto, che il tecnico non è venuto e che hanno messo un ventilatore in camera.
Sono troppo stremato dalle ultime ore sotto il sole per non far buon viso a cattivo gioco.
“Oggi mi sembra meno caldo, vero?” aggiunge amichevolmente.
E in effetti, la prima impressione termica dell’angusta camera singola non è spaventosa.
“Guardi” mi fa, “le faccio uno sconto di cinque euro.”
E invece di darmene cinque, vedo che mi ridà i cinquanta. Resto interdetto.
“Me ne dia quarantacinque, perché non ho portato soldi.”
Per fortuna li ho, se no anche il sontuoso sconto andava a farsi benedire.
Resto solo, cercando di digerire il colpo inaspettato.
Il sole pomeridiano, intanto, batte sulla piccola finestra che dà su un piccolo cortile ove non gira l’aria.
Morale: passo una nottataccia, fra brevi sonni inquieti, risvegli smaniosi con la schiena sudata e docce rinfrescanti.
Mi alzo meno stravolto del temuto, ma non riesco a incamminarmi prima delle sette. E oggi la mia tappa è stimata almeno venticinque chilometri.
Nella piazza centrale, rapidi voli bassi di rondini che gridano festose mi danno il buongiorno.
Prima di uscire dalla città c’è un curioso sottopasso a ridosso del torrente Arbogna.
La mattina è decisamente più afosa di ieri, ma cerco di mantenere una buona andatura, almeno per le prime ore.
A differenza di ieri, l’amministrazione delle energie oggi appare subito necessaria.
Il distacco dalla città è quasi improvviso.
Non capisco se c’è finito per distrazione o se si tratta di un parcheggio estemporaneo. Lo fotografo con un po’ di paura che se ne accorga e non gradisca.
Ma quando gli passo vicino è rivolto dalla parte opposta.
Più avanti, la quiete agreste è interrotta da un forte e corale schiamazzare.
Eccole, stipate in un grande cortile recintato,
ma questa foto mi costa cara: nell’avvicinare la macchinetta alle maglie del recinto sento un forte e improvviso botto, unitamente a una scintilla; una sgradevole e spaventosa scossa elettrica mi attraversa la parte superiore del corpo.
La sento soprattutto nella testa, che accuserà il colpo per un certo tempo.
La vendetta delle recluse.
Per fortuna non ha lo stesso costo fotografare gli odierni spettacoli di vegetazione
e di acque, tante acque canalizzate, che segnano questa seconda tappa nell’estesa provincia di Pavia.
Il primo piccolo paese da attraversare si chiama Remondò.
Le risaie, benché non rappresentino una monocoltura come nel vercellese, qui sono ancora preponderanti.
Compare una specie di minacciosa Torre Eiffel con sorelle minori.
L’area dove sorgono è recintata in modo invalicabile e cartelli a firma esercito sconsigliano gentilmente di provarci.
La pianura lombarda continua a offrire armoniosi spettacoli, ma a differenza di quella piemontese, che mi aveva affascinato tanto nella zona dopo Ivrea, ma anche in quella di Vercelli, mi accorgo che manca di un elemento acustico importante, quell’isolamento totale dal rumore dei motori, che qui continuano, magari quasi impercettibilmente, a ricordarci la presenza possessiva e distruttiva dell’uomo nella sua smania urbanizzatrice.
E magari fossero solo antichi cascinali diroccati
o trattori all’opera,
o opere di canalizzazione.
Nonostante il caldo afoso, continuo a mantenere un passo abbastanza spedito.
La voglia di una sosta è forte ma resisto, con l’obiettivo di raggiungere il paese di Tromello, per riposarmi, rinfrescarmi e capire a che punto sono complessivamente.
In questo spirito, rinuncio anche a staccare il cappellaccio a larghe tese dallo zaino e indossarlo. Il sole delle dieci (che sono le nove solari) non ha mai ucciso nessuno.
Una chiamata telefonica. È il gestore dell’ostello di Pavia, dove ho prenotato per domani un posto per me e una camera per Massimo ed Elena; chiede premurosamente conferma, anche sugli orari d’arrivo.
Proprio mentre sono in conversazione, un omone a dorso nudo in bicicletta mi supera e mi grida: “Buon cammino!”.
Gli rispondo con un saluto del braccio.
Peccato. Avrei goduto molto di quell’incitamento.
Anche se noto quanto sia radicato e diffuso il mito del pellegrino, comunque sentirsi in qualche modo protagonisti è galvanizzante.
Ecco finalmente l’abitato di Tromello
e una sua fontana, da cui bevo una gran quantità d’acqua fresca, preventiva alla sosta al bar,
dove posso limitarmi a chiedere un caffè d’orzo e una brioche.
“Lei è un pellegrino?”
“No diciamo che sono un viandante sulla Via Francigena.”
È un signore d’una certa età, accompagnato dalla moglie, a interpellarmi dal tavolo vicino.
“Lo vuole un timbro?”
“Eh no, ho lasciato a casa la scheda…”
“Allora posso darle un gadget?”
“Quello volentieri.”
Va al banco e ritorna con una spilla e una piccola pseudo pergamena con un augurio in latino.
Ringrazio di cuore, poi si parla a lungo, soprattutto della storia dei pellegrinaggi, da quello del vescovo Sigerico di Canterbury nel 990 fino al settecento.
Tromello è uno dei posti tappa citati da Sigerico, nel documento che ha permesso di tramandare, e poi di attrezzare con una certa precisione, questo lungo cammino.
Un bell’incontro.
Intanto Google mi ha dato buone notizie: sono già molto oltre la metà percorso.
Ma, alle undici, è tempo di ripartire.
Dopo un’ora di cammino, reso meno spedito dai raggi del sole, oltre che dai chilometri accumulati, giungo a Garlasco, dove è necessario rifornirsi di viveri per la cena.
Accaldato come sono, appena entro nel gelido supermercato sento il bisogno di coprirmi sopra la maglietta bagnata di sudore.
Apro lo zaino e cerco a lungo, invano, la maglietta da sera.
Alla fine indosso la maglia del pigiama, per fortuna nell’indifferenza generale.
Nel centro di Garlasco mi concedo un’eccezionale seconda sosta al bar, prima di affrontare l’ultima difficile ora abbondante di cammino.
Il sole delle tredici e trenta picchia forte e ora il mio passo è lento.
Quando il percorso incrocia la strada provinciale, decido di chiudere la preziosa nuova traccia che mi ha guidato (permettendomi più di una volta di ritrovare agevolmente il sentiero corretto) e di affidarmi a Google per giungere al mio bed and breakfast.
Faccio bene, perché la sua insegna mi compare davanti molto prima dell’abitato di Gropello Cairoli, dove si dirige il percorso canonico.
Nell’accompagnarmi nella mia bella e spaziosa stanza,
il giovane gentile che mi ha ricevuto mi fa:
“Mi sono permesso di accendere l’aria condizionata…”
Stanotte si dorme!
Quando ce vole ce vole
Eh sì, siamo uomini o pellegrini? 😀