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Non è cominciata affatto bene, quest’ultima giornata.
Risvegliatomi alle tre e tre quarti, dopo un po’ d’indecisione se cercare di dormire ancora o approfittarne per una partenza prima dell’alba (oggi molto strategica) , alla fine opto per la seconda ipotesi.
Cerco di fare piano, e anche di evitare il figlio dei padroni di casa, che mi hanno detto doversi alzare alle quattro per un suo turno di lavoro.
Non riesco a evitarlo, ma ci diamo semplicemente un buongiorno in sordina.
E la cucina, alle quattro e un quarto quando ne varco la soglia, è tutta per me, adibita con cura per una colazione abbondante, anche se necessariamente a base di prodotti conservati.
Ma ho con me un bel grappolo d’uva comprata ieri al PAM e, un chicco dopo l’altro, lo mangio tutto, mentre il tè è in infusione.
Poco prima delle quattro e mezza, a sorpresa fa il suo ingresso in cucina l’anziana signora, con l’aspetto di un fantasma.
“Buongiorno” mi fa.
“Buongiorno!”
Farfuglia qualcosa.
“Come dice?”
“Ben alzato” senza l’accenno di un sorriso.
E’ utile qui, prima di proseguire col dialogo, fare una premessa relativa al giorno precedente.
Mi aveva colpito la sua esasperata formalità mentre parlavo con suo marito. Mi aveva chiesto, infatti, piegando in avanti il suo viso e il suo corpo magro e un po’ adunco: “Mi scusi se mi permetto di chiederglielo, ma da dove viene?”
Poi, però, era stata oggettivamente cortese nell’apparecchiarmi la tavola (la stessa dove poco prima avevano pranzato loro), con le posate, il bicchiere, una terrina per l’insalata e anche l’olio e il sale che avevo chiesto per condirla.
Non solo, ma, quando poi le avevo domandato dove potevo buttare i rifiuti organici, mi aveva detto di lasciare lì tutto ché ci avrebbe pensato lei. Da parte mia, avevo comunque lavato e asciugato la terrina, le posate e il bicchiere.
Poi, finito il mio pranzo a base di pane con un’intera confezione di stracchino, e un dessert al cioccolato, avevo insistito col marito per regolare la registrazione e i conti, visto che sapevano della mia intenzione di partire all’alba, intorno alle cinque, come mi avevano chiesto l’orario.
Alla fine mi ero ritirato, per sfruttare, sdraiato sul letto, gli effetti di quel mezzo litro di birra fresca.
E alle cinque del pomeriggio, ancora un po’ intontito dall’inquieta dormita, avevo cominciato le complesse operazioni di composizione sul tablet del lungo racconto della giornata, che, ci crediate o no, erano andate avanti fin oltre le undici di sera.
D’altra parte, avevo chiaramente dichiarato la mia abituale intenzione di saltare la cena.
Dunque, “ben alzato” mi fa freddamente.
“Si è alzata presto anche lei!” commento.
Poi, immediatamente dopo, non trattiene più il suo livoroso, sorprendente rancore nei miei confronti, evidentemente coltivato per tutta la notte:
“Aveva detto che faceva colazione alle cinque” mi fa con tono di recriminazione.
“No, avevo detto che sarei partito, alle cinque.”
“E come faceva, per aprire il cancello, visto che tutto ieri si è chiuso in camera e non si è fatto più vedere?”
Resto senza parole.
“Non capisco,” rincara la dose: “lei è proprio strano.”
La ripeterà molte volte, quella parola, “strano”, il vero pomo della discordia per le sue ben radicate, conformiste abitudini.
“Poteva venire a chiamarmi.”
“E come facevo, magari dormiva.” Poi aggiunge, in un crescendo di rancore: “Ne vedo tanta di gente, ma uno strano come lei non mi è mai capitato.”
Qui avrei dovuto ribattere con la stessa moneta, visto quante volte ho concordato, nei ‘bed and brekfast’, la mia uscita in autonomia l’indomani mattina, e una strana come lei non mi è mai capitata. Ma si sa che le polemiche non sono certo il mio forte.
Alla fine, esaurita la ramanzina, per evitare ulteriori guai, concordo la mia uscita di lì a dieci minuti, cioè alle cinque meno dieci.
E molto puntualmente mi ripresento, zaino in spalla e con la felpa indossata sopra la maglietta, ché a quest’ora fa freddo.
“Vediamo se l’apriporta funziona” fa lei molto platealmente. “Sì, ha funzionato!” esclama ancora più platealmente.
Non sento alcun impulso di rivalsa emotiva, di fronte a un così evidente caso patologico, e le dico “arrivederla” lanciandole uno sguardo il più possibile franco e sereno.
“Arrivederla” mi risponde lei, con tono deciso ma freddo ed esclusivamente formale.
Fa freddo anche fuori, molto, mentre è ancora notte.
Il freddo addosso, e alle mani, sarà una nota caratteristica delle prime ore di cammino; indosserò la leggera felpa per più di tre ore e mezza, fino alla prima sosta di un cammino che, secondo i calcoli, dovrebbe essere lungo oltre ventotto chilometri, costringendomi a una nuova, ultima maratona di otto o nove ore complessive.
E il pensiero di quel comportamento scandaloso mi resterà dentro a lungo, a turbare l’armonia dell’ultima giornata con una nota molto stonata e fastidiosa.
Tento diverse fotografie notturne: in cielo c’è anche una bella luna e Venere; vengono quasi tutte inesorabilmente mosse,
salvo questa dell’area di rifornimento:
e, alle prime luci dell’alba, queste del centro di Altopascio:
poi, come sempre, assisto al risvegliarsi del sole
Il passaggio nel bosco, col sole che non riesce a scaldare, e a tratti neanche a illuminare, mi è rimasto nella memoria come una fase preponderante della prima metà tragitto, anche se, osservando la sequenza di fotografie, vedo una grande varietà di paesaggi.
Un tratto di una certa lunghezza conserva il selciato utilizzato dagli antichi pellegrini; qui siamo insindacabilmente sul tracciato originario.
Rivivo qualche emozione già provata, durante la ricerca delle tracce dell’antica Via Vandelli, qualche anno fa.
Un pannello spiega che nella “Relazione di tutte le strade” del 1812, questo tratto risultava così sconnesso da causare spesso il ribaltamento dei veicoli.
Un albero egocentrico domina un’improvvisa radura circolare.
Poi è la volta di acque
vaste pianure,
filari di cipressi,
in un vialetto che sembra dare finalmente un aspetto più urbanizzato a un paesaggio fin qui esclusivamente naturale, cioè… sprovvisto di bar, e sto camminando, a testa bassa, già da tre ore e mezza.
Ma infatti compare un paese, Ponte a Cappiano,
e ben presto l’occasione per una sosta rigenerante e chiarificatrice sul punto del percorso totale.
I primi segnali di un ridimensionamento della lunghezza esorbitante da Altopascio a San Miniato, dichiarata nella guida ufficiale, cominciano timidamente a farsi strada.
E quando riprendo il cammino, vengo confortato anche da luci e colori più vivi e da un clima più gradevole, tiepido e molto ventilato.
Un lungo sentiero attraversa spazi verdi a perdita d’occhio, allungando di molto la via più diretta per Fucecchio, percorsa dalla provinciale.
Il benessere che, in queste condizioni climatiche e ambientali, torna a visitarmi, non mi fa affatto rimpiangere l’inefficienza del percorso.
Una volta ripresa la provinciale, vedo una coppia di ciclisti attrezzati da lunga percorrenza; chissà se stanno seguendo l’intera “Ciclovia Francigena” o solo la porzione che passa di qua.
Chiedo loro, a gesti, se posso fotografarli; lui mi sorride, lei un po’ meno.
Il centro di Fucecchio, posto su un’altura, viene raggiunto così:
Il mio morale, per tutta la prima metà preoccupato solo per un efficace smaltimento dei tanti chilometri previsti, comincia a essere galvanizzato dai segnali sempre più frequenti di un avvicinamento rapido al traguardo, che è la stazione ferroviaria di San Miniato/ Fucecchio.
Ma c’è di più: sta per comparire l’Arno, a sancire l’avvenuta traversata dal Po di Piacenza, due settimane e mezza or sono.
Eccolo, sotto di me:
Nonostante la levataccia, con tanto di ramanzina, e le ore già passate in cammino, ho conservato abbastanza lucidità per capire quando è il momento di abbandonare il tracciato ufficiale.
Se riesco a raggiungere la strada, questa mi porterà in breve tempo, senza fronzoli, in prossimità del traguardo.
Ma non è facile: mi ci separa un dirupo
Avanzo a fatica fra le erbacce, parallelamente alla strada,
e alla fine, con soddisfazione, trovo il varco per accedervi.
Procedo al di qua del guardrail: preferisco rischiare un indesiderato salto di un paio di metri, piuttosto che di essere falciato dalle vetture e dagli autocarri che mi sfrecciano contro.
Dopo i campi di girasole, c’è una laterale che dovrebbe portare alla stazione.
Mentre consulto Google Maps, una vettura che l’ha appena imboccata rallenta vistosamente, e l’autista mi fa segno di sì con la testa.
“Per la stazione?” gli grido; lui conferma.
Una scaletta mi fa risparmiare un’ultima ansa della strada, spalancandomi improvvisamente la vista al traguardo finale di questa mia seconda porzione della Via Francigena, dal Po all’Arno.
Come feci l’anno scorso a Piacenza, scatto una foto alla stazione, dandomi appuntamento qui, per ripeterla fra un anno, quando si tratterà di riprendere il cammino, dall’Arno al Tevere, spero con la stessa buona sorte che mi ha accompagnato in tutte queste giornate.
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Che bello ritrovare le suggestioni delle tue camminate! Forse la signora che ti ha ospitato è soltanto infelice, e aveva bisogno di un pretesto per dare voce al suo malessere, hai fatto benissimo a lasciar perdere, sarebbe stata energia sprecata. Per fortuna il contatto con gli elementi della natura fa dimenticare ogni cosa.
Si è mostrata sicuramente infelice, quella signora, e involontariamente le feci passare una, sia pur breve, notte di tormenti…
M’illudo che la mia imperturbabile serenità nel congedarmi abbia sortito qualche buon effetto su di lei.
Ciao Giraffa cara, grazie per la visita!
Fatta anche questa volta, peccato per l’inizio di questa ultima puntata
Sì, cara Amanda: bilancio molto positivo; e quell’inconveniente assurdo è roba da ridere!
Che ospite antipatica hai incontrato… si merita d’essere scordata in fretta.
Dopo ore trascorse nelle campagne, con rari incontri, cosa prova un viaggiatore come te ad entrare in un centro abitato? A parte il bisogno di cibo e di riposo…
Che alba ti ha salutato… e che allegri campi di girasoli.
Ciao!
Ciao Sari, hai ragione: le scorie lasciatemi da una persona conformista e infelice come quella le ho smaltite in fretta, e magari l’incontro con un tipo “strano” come me può aver lasciato in lei qualche seme di cambiamento positivo.
Per quanto riguarda il rientro, non è proprio vero che stia vivendo l’impatto dalla campagna al centro abitato, sia perché durante il cammino ho attraversato anche molti paesi e città, sia perché qui, dove abito, c’è già la prima campagna che s’incontra dopo l’ultima uscita della tangenziale. Quello che sicuramente cambia in modo radicale è il ritmo delle giornate, l’attività fisica a ritmi forzati e la dimensione nomade.
Penso che un tipo d’esperienza così intenso non debba durare oltre le due o tre settimane, e l’idea di chi compie l’intero cammino fino a Roma in un’unica traversata non mi piace.
Grazie di avermi seguito con tanta attenzione; ciao!
Cara Sari, riletta a mente riposata (ero davvero stanchissimo), la mia risposta evidenzia clamorosamente quanto distratta sia stata la lettura del tuo quesito.
Ci riprovo, sinteticamente, ora.
Se è vero che il perdersi nella natura è l’aspetto più affascinante dei percorsi, è altrettanto vero che il desiderio della cosiddetta civiltà aumenta con l’aumentare della fatica fisica.
Il ritorno nei centri abitati viene vissuto, a livello psicofisico, come un sollievo dal più impegnativo vagabondare solitario fra i campi.
Ma, appena ristorati, e concesso il giusto tributo (di volta in volta) alle bellezze urbane, torna subito la voglia di nuovi paesaggi agresti.