(Diario di un resistente – 7)
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La conoscenza della mia amica D. risale ad alcuni anni fa, quando mi ero recato in Versilia ospite di Massimo, uno degli organizzatori di un convegno di matrice ecologica che fu assolutamente memorabile (per poi rivelarsi altrettanto deludente nelle ricadute organizzative), sotto l’egida del movimento Transition Towns.
Lei aveva parlato in qualità di vicepresidente di una società impegnata nell’efficientamento energetico e nella lotta contro le fonti non rinnovabili, promuovendo un investimento etico, ma comunque remunerato, nel relativo azionariato popolare.
L’avevo poi ritrovata su Facebook, condividendone l’amicizia, che in quell’ambiente significa soprattutto poter prestare reciproca attenzione ai propri scritti, brevi o lunghi che siano.
Fu così che, due anni e mezzo fa, lessi un suo nuovo appello all’acquisto di azioni di un’altra società, una s.p.a. emergente, di cui intanto lei era diventata il braccio destro del fondatore, società che si proponeva come trampolino di lancio rispetto ad altre realtà, accomunate sempre da quell’obiettivo ecologico nel campo dell’energia.
Avendo ancora a disposizione una parte del capitale realizzato con la vendita della licenza del taxi, decisi sulla fiducia di accettare l’invito e di investire in quella raccolta un importo di una certa rilevanza.
Ne ottenni immediata gratitudine, oltre che da lei stessa, anche dal fondatore e presidente, che mi prese in simpatia e m’invitò a parlare, niente meno in veste di poeta (lui innamorato di Dante Alighieri), in un evento di presentazione della società ad importanti addetti ai lavori.
Il tempo passa e mi accorgo che quei fondi sono strettamente vincolati e difficilissimi da liquidare, almeno finché l’azienda non si quoterà in borsa. E la cosa mi va sempre più stretta, perché, per varie vicende, ora mi farebbe molto comodo riottenere il capitale versato. In uno scambio di messaggi, il fondatore, che non nasconde la delusione per la mia intenzione, mi dice che cercherà un socio desideroso di ampliare il proprio pacchetto, acquistando il mio tramite un atto notarile. Ma non se ne fa nulla per lungo tempo.
Intanto l’amica D. mi avverte che il valore delle azioni si è rivalutato enormemente, segnalandomi una nuova bacheca di annunci di vendita legata al sito di “crowdfunding” che aveva curato la raccolta iniziale.
Sebbene senza crederci troppo, inserisco il mio annuncio, a un valore più che raddoppiato e, tuttavia, ancora fortemente a sconto rispetto a quello attuale.
E passa altro tempo.
Un mese fa, si fa vivo a sorpresa il dantesco ma pur abile presidente: uno dei soci è interessato a trattare per le mie azioni.
Conduco le trattative per telefono, rispolverando le capacità che coltivai da bambino giocando a Monopoli, e in qualche giorno troviamo un accordo, che per me significa portare a casa una rivalutazione del cento per cento in poco più di due anni!
Il notaio sta a Milano e fissiamo un appuntamento per il pomeriggio di giovedì 10 febbraio.
Le ben note simpatiche regole in vigore in materia (dicono) di sanità pubblica, mi costringono, da non sottoposto alla triplice iniezione magica, a programmare un viaggio di andata e ritorno in automobile senza possibili pernottamenti e, per poter accedere allo studio notarile, a procurarmi il provvisorio lasciapassare “verde” ottenuto tramite un tampone antigenico, che, per evitare problemi, non esito a prenotare in una farmacia del mio comune.
La trafittura delle mie narici, tutt’altro che gradevole, viene effettuata da un giovane farmacista bardato da sala operatoria.
Un lungo quarto d’ora d’attesa presso l’entrata posteriore della farmacia, fra il verde soffocato d’una zona residenziale in un grigio, freddo pomeriggio di fine inverno, e infine anch’io posso tornare, per quarantott’ore, a godere di alcuni diritti civili ma non tutti, alla modica spesa di quindici euro.
Ed eccomi, l’indomani, in viaggio per Milano con la compagnia, fuori dall’abitacolo, di autotreni di mezza Europa a velocità di crociera e, dentro, del mio pranzo a base di riso, noci e bietola, rinchiuso in una borsa termica recuperata dalla cantina, che svolgerà ottimamente la sua funzione. Esito ad aprirla, per guadagnare chilometri, fino alla penultima area di servizio dell’autostrada.
Qui, prima di potermi nutrire in posizione sacrificata dietro al volante, decido di sgranchirmi le gambe fino al limite del parcheggio degli autotreni, dove, nascosto dalla mole di un TIR, faccio pipì fra la sterpaglia.
Il parcheggio in zona Romolo è facile da raggiungere, superando con l’aiuto del navigatore l’estrema periferia in pochi minuti, ma è pieno. Procedo in modo casuale fino a trovare un comodo posto ai lati d’una strada, molto tranquilla e percorsa a piedi da alcuni studenti dei contigui alti istituti universitari.
Tre chilometri e mezzo, che ho deciso di percorrere camminando (anche la metropolitana mi è proibita), mi separano dallo studio notarile in zona centrale.
Mi aspettavo buone sensazioni, da questo mio ritorno nella città che custodisce i ricordi di cinque anni di lavoro e di fascinose serate, intorno al 1990.
E invece le impressioni sono principalmente di confusione, rumore, straniamento, cantieri stradali. Mi dico che forse di sera è diverso; poi, per trovare uno scorcio fotografico da inviare alla mia cara Lady G., devo procedere fino a un ponte su un naviglio,
e poi alla basilica di Sant’Ambrogio.
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Una gentile segretaria, senza chiedermi il lasciapassare, mi fa accomodare in una grande sala silenziosa occupata da un tavolo lungo quasi come quello di Putin.
Sono in anticipo di qualche minuto; la controparte arriva alle quattro in punto.
“Buonasera, ce la diamo la mano, vero?”
“Certo: ho fatto tre dosi di vaccino e sono anche guarito dal Covid!” risponde baldanzoso; ovviamente non ribadisco. È un tipo sulla mia età, di non molte parole, nel seguito, e di una certa qual diffidenza.
Il notaio tarda alcuni minuti, poi compare, mascherato da una “FP2” che rende quasi incomprensibili le sue parole. Più giovane di noi, in giacca senza cravatta proprio come noi, mi sembra un tantino deferente nei confronti dell’altro.
Quest’ultimo, nel firmare l’assegno, sente stranamente il bisogno di dirmi che, dietro, c’è tutta la solidità di una banca.
Alle quattro e mezza sono finalmente libero e, appena fuori dal portone, compio l’atto trasgressivo e liberatorio di togliermi la mascherina.
L’amica D., anche lei in questi giorni a Milano, mi ha promesso di farsi trovare in zona proprio a quell’ora, per accompagnarmi lungo la passeggiata di ritorno. Non faccio in tempo a comporre il numero di telefono che la vedo venirmi incontro sorridente.
La conversazione si svolge ininterrotta, lungo un itinerario più piacevole rispetto all’andata, grazie alla sua guida.
Lei confuta le mie impressioni sulla città (in cui visse gli anni giovanili); la trova invece poco trafficata: “Non vedi?” mi fa indicandomi la strada, che sembra darle ragione.
Ed è un po’ paradossale, da parte di una che vive su un’altura verde con vista mare.
I suoi racconti ne rinnovano l’immagine di una persona capace di disegnarsi vita e attività a misura delle sue preferenze, in modo invidiabile ed esemplare.
Da tempo ha abbandonato anche, e questa volta non amichevolmente, la società di cui ho appena venduto le mie azioni. Quando le faccio il nome del compratore, mi rivela che si tratta di un alto dirigente bancario, fiore all’occhiello dell’azienda stessa.
Verso la fine del percorso condiviso, mentre si fa sera, mi propone di provare a bere qualcosa insieme, in un tavolino all’aperto di un grande bar, esterno a un supermercato: lei, che ha ottenuto il lasciapassare potenziato dopo aver contratto l’innocua variante Omega, cercherà di farsi dare un vassoio con i nostri aperitivi. Ribatto che voglio provare a stare dentro e che ho pur sempre la mia carta verde provvisoria.
La ragazzetta dietro il banco raccoglie la nostra ordinazione e ci fa subito il conto. Ci sediamo in un tavolino privo di schermo trasparente intermedio e ci sentiamo dire, da lontano: “Posso chiedervi il green-pass?”. Torniamo alla cassa per la verifica elettronica.
Il QR-code nel telefono di D. viene verificato facilmente; il mio, su carta, viene inquadrato, in modo ripetuto e nervoso, dalla tipa, che stenta a capire. Le dico: “Ho fatto il tampone ieri, quindi non costituisco alcun pericolo.”
Lei s’intestardisce: “Non posso accettarlo!”
“È molto più a rischio di contagiare chi si è vaccinato” ribatto e, quando accampa il motivo che potrebbe subire dei controlli, affermo, con crescente decisione, che i controlli sono previsti a campione e che lei può sempre dire di averli effettuati.
Finalmente la polemica viene interrotta da un suo collega più anziano, che le fa cenno di lasciar perdere.
Riconquisto il tavolino e la compagnia della mia amica, che ha seguito la scena con apprensione.
Un brindisi di mia gratitudine nei suoi confronti e di buon auspicio per le sorti nostre e di questa nostra collettività quanto mai umiliata e in pericolo.
Poi, quando usciamo, il cielo è già scuro.
Ci salutiamo con calore, quindi proseguo per strade desolate, fino a ritrovare gli istituti universitari e la mia vettura.
Il viaggio di ritorno avviene a velocità sostenuta: il traffico è sopportabile e la visibilità ottima. Diversamente dall’andata, mi lascio inondare dalla musica, mentre la stanchezza aumenta progressivamente. Fino all’entrata del mio garage.
L’indomani mattina, dopo una notte di sonno profondo, mi reco subito a depositare l’assegno in uno sportello automatico della mia banca, con un minimo di apprensione: diversi anni fa un mio assegno circolare era finito chissà come negli ingranaggi e c’era voluto del bello e del buono per convincere l’impiegato a recuperarlo.
Ho una biro con me; non mi ricordo se va firmata o meno la girata e, nel dubbio, mi faccio guidare dalle indicazioni elettroniche, che, a un’occhiata non abbastanza attenta, mi sembra non ne facciano cenno.
E così l’indomani, benché sia sabato, mi arriva, come un pugno nello stomaco, l’avviso di assegno stornato per errori di compilazione: si prega di prenotare un incontro in filiale per il ritiro.
Effettuo via internet la prenotazione per lunedì a mezzogiorno, poi decido di scrivere una mail al firmatario, col dovuto garbo, chiedendogli di tenersi disponibile, in quell’orario, per eventuali verifiche.
La risposta, pure cortese, contiene un’informazione sorprendente: “Dica pure che sono il presidente di una banca.”
Poi mi tocca prenotare un nuovo tampone (questa volta in una farmacia diversa), sempre per lunedì mattina con il dovuto anticipo.
Ritrovata la calma, capisco quale debba essere stata l’origine del problema, così da passare il fine settimana senza patemi.
La farmacista, con modi molto amabili, mi chiede la finalità del tampone e, quando le dico che mi serve per andare in banca, non nasconde il suo sconcerto. “Siamo alla follia, vero?” spingo sull’acceleratore, finché lei afferma solennemente di contare sulla giustizia divina. Dovrei ribattere che mi accontenterei di quella umana e di vedere dietro le sbarre i criminali che ci governano, ma mi limito a un “Me lo auguro di cuore.”
L’operazione avviene molto delicatamente, a differenza di quella similare di cinque giorni fa. Mi chiede solo se ho il raffreddore; ribatto che no, ma ho preso freddo perché son venuto in bicicletta.
Una guardia giurata mi consiglia di tenere a portata di mano il green-pass, nel varcare la porta della grande filiale.
Ma nessuno mi chiede niente e, presso una delle scrivanie che hanno sostituito i vecchi sportelli, il mio problema viene risolto in pochi minuti, nel silenzio ovattato della banca semideserta.
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Che Odissea Francesco!
Meno male che il lieto fine c’è. Sono stata in patema per quell’assegno temendo scoperture di conto o altri inghippi gravi.
Ma l’affare promesso dal titolo c’è stato. È tutto il contorno che lascia amarezza: cielo e canale plumbei in una Milano che non riconosci e che non ti riconosce. Per non dire un’Italia che non riconosci e non ti riconosce
Poi, cara Mirella, è vero che, come ogni esperienza di vita vissuta, anche di quella giornata restano tracce comunque interessanti nella memoria, però hai colto perfettamente i sentimenti che in questa pagina di diario ho cercato di trasmettere, insieme al quadro di ordinaria follia di quest’Italia davvero irriconoscibile.
Grazie e un abbraccio!
Che tensione,
pensavo ad un assegno “cabrio”.
Beh, alla fine tutto ok e che affare di questi tempi!
Eh sì, Nick, e sono ben lieto (non solo egoisticamente), di aver potuto raccontare una storia a lieto fine, in questi tempi sempre più cupi, anche sul fronte finanziario…
Ti ho letto con apprensione, temendo fino all’ultimo che qualcosa o qualcuno si sarebbe messo di mezzo per farti perdere il tuo gruzzoletto che invece si è moltiplicato. Tiro un sospiro di sollievo perchè patisco sempre di fronte alle ingiustizie e ai mille tranelli di chi maneggia denaro.
Covid. Gli italiani sono quel che da tempo credo di sapere: obbedienti per natura, fatto dimostrato ampiamente da questi due anni di restrizioni e comandamenti vari. Questo tratto mi spaventa più di ogni altra cosa perchè so che decideranno anche per me.
Ciao (ormai) ricchissimo signore.
Ti dirò, cara Sari, che anch’io ho tirato un grande sospiro di soievo, alla (vera) fine della vicenda!
Per quanto riguarda la sottomissione ossequiosa della nostra popolazione (che secondo voci internazionali sarebbe stata sperimentalmente misurata in questi due anni di menzogne), sembrerebbe un vizio antico, che poi l’avvento delle tivù berlusconiane prima e dell’asservimento globale dei media ai poteri transnazionali poi, non han potuto che amplificare.
Un gregge di pecore belanti che un giorno dirà che aveva capito tutto…
Ma ci sono anche molti leoni (e leonesse) e si stanno (forse rapidamente) organizzando!
Un affettuoso ruggito.