(Diario di un esule – 1)
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Se è vero, come sostengono i miei maestri, che siamo semplici attori di un copione già scritto, o viaggiatori su un binario predeterminato, qui, dal mio posto vicino al finestrino, da poco più di un paio di settimane ho potuto osservare il mio treno esclusivo compiere un prodigioso quanto inarrestabile cambio di velocità.
Tutto comincia con un fine settimana, in cui si evidenziano più chiare che mai le spinte centrifughe all’interno del rapporto di coppia, che ebbe inizio lo scorso autunno.
La coscienza improvvisa di desiderare fortemente, e volere decisamente, il ritorno all’autonomia. Poi, l’attesa di qualche giorno per trovare il momento più adatto ad affrontare il discorso con lei, con il cuore turbato per il timore di ferire una persona già provata da problemi di salute e da altre recenti contingenze.
Quando riesco a farlo ottengo ascolto, accettazione e condivisione: non si può immaginare un distacco più indolore, che spiana immediatamente la strada a un nuovo rapporto all’insegna della collaborazione e dell’amicizia.
Forse in meno di altre ventiquattr’ore compare alla mia coscienza, con altrettanta nettezza, un dato che evidentemente covava sotto la progettualità di coppia e di gruppo, orientata, quella, a vaghi ma costanti progetti di ecovillaggio: voglio andare a vivere a Tenerife, nelle Canarie, a Puerto de la Cruz, come fece mio fratello cinque anni fa, alla mia stessa età attuale (e anche lui in solitaria), scelta rivelatasi poi assolutamente felice.
La spinta verso la decisione più stravolgente della mia vita viene dal profondo; nei giorni seguenti gl’inevitabili conflitti interiori si risolveranno sempre nella conferma.
Le motivazioni razionali, che vanno ricercate in subordine a tale spinta, ovviamente ci sono e possono servire, anche a chi legge questa mia nuova e speciale pagina di diario, a capire tale decisione.
Le elencherò brevemente e in ordine sparso.
C’è un fattore climatico, in senso stretto: mentre qui ormai l’anno è segnato dall’alternarsi dalla sofferenza per il freddo a quella per il caldo, là si vive sempre in una sorta di inebriante paradiso terrestre, confortato estate e inverno dai dolci aliti dei venti alisei. In prospettiva della mia età anziana questo fattore tende ad assumere una particolare rilevanza.
Ci sono poi fattori sociali, in senso umano: la psicopandemia che ci è stata imposta per due anni ha segnato, con i suoi divieti, un inusitato distacco emotivo dal territorio della città metropolitana. Mi ritrovo a considerare ormai del tutto remota, per fare un esempio, l’idea di andare in città al cinema Orione, a godermi un film d’autore, come facevo prima.
Il mio principale svago e conforto, che è stato ed è ancora andare a pranzo in bicicletta due volte la settimana da Tonino (lo ammetto, si tratta di uno pseudonimo), potrà essere rimpiazzato nei ristorantini italiani degli amici di mio fratello.
Allo stesso modo, difficoltà materiali di contatto e, inutile negarlo, un senso d’inevitabile discriminazione nella lettura della realtà globale, mi hanno allontanato da una qualsiasi precedente rete di frequentazioni amicali, sostituita tuttavia da quella legata alla mia compagna e, come accennavo, orientata vagamente ma esplicitamente a una progettualità abitativa comunitaria: tutte persone che condividono la scelta di non sottoporsi alla sperimentazione transgenica spacciata per vaccinazione, ma, nello stesso tempo, caratterizzate (chi più chi meno) da un approccio verso teorizzazioni dell’occulto e della psiche umana per così dire esoteriche, che non mi appartengono. Fermo restando l’affetto che provo per ciascuno di loro, non mi riesce doloroso il distacco. Con i pochi miei amici storici, poi, i contatti sono prevalentemente telefonici e dunque non cambieranno.
Altri fattori sociali, ma questa volta in senso politico, mi spingono a scappare da questo teatro nazionale di tirannica sopraffazione e demolizione controllata. Da questo delirio di propaganda e falsità, da queste prospettive di nuove restrizioni, di miseria, di carenza di riscaldamento e cibo. Là le cose, quanto meno per il riscaldamento (non necessario), andranno sicuramente meglio. E, nella malaugurata (ma penso remota) ipotesi di una guerra mondiale, sarò lontano dai bersagli rappresentati dalle basi militari americane che costellano questo nostro disgraziato Paese.
Se da una parte vedo diffondersi una nuova consapevolezza della pazzesca realtà offuscata dai media, non riesco tuttavia a immaginare come tale consapevolezza possa destituire il potere opprimente e criminale che si è impossessato, ora più che mai, dei centri di comando e che sarà pronto alla più feroce repressione per conservarli.
Con un giorno di anticipo rispetto al mio progetto mentale, domenica scorsa ho compiuto il temuto e desiderato passo di non ritorno: ho annunciato all’anziana coppia di dirimpettai la mia intenzione di mettere in vendita l’appartamento, per concedere a loro un diritto di eventuale prelazione. Senza scomporsi troppo, la signora mi ha detto che, invece, hanno intenzione anche loro di andarsene presto, non all’estero ma in città, a Bologna.
Allora ho proceduto, scrivendo immediatamente una mail a quasi tutti i vicini di questo micro-borgo (meno di dieci famiglie), invitandoli a farsi vivi, se interessati a una compravendita senza intermediari, nei pochi giorni prima che io vada a firmare un contratto esclusivo con l’agenzia immobiliare a cui, già qualche mese fa, avevo commissionato una stima dell’appartamento.
Poi mi son messo in febbrile attesa: il pensiero dell’incombente stagione estiva che (unitamente al mio abituale piano di vacanze per scappare dal caldo insopportabile di luglio e agosto) rallenterà le trattative, mi fa sentire molto stretto il tempo a disposizione.
Lunedì non sono giunte reazioni, salvo il messaggio di un inevitabile agente-squalo, informato chissà da chi, che voleva carpire l’affare: gli ho risposto gentilmente, poi, alla sua insistenza, l’ho gentilmente “bannato”, cioè escluso dai miei contatti.
Passano le ore: silenzio. Mi vien voglia di anticipare di qualche giorno il contatto con la mia agenzia.
Poi ieri mattina, martedì, incontro casualmente il mio vicino di sotto, quello su cui maggiormente puntavo. Mi dice che ha avvertito dei suoi amici e s’informa su quanto chiedo. Gli rinnovo anche l’idea che per qualche giorno sarò disposto ad aspettare prima di dare l’esclusiva all’agenzia.
Esco dall’incontro un po’ galvanizzato, prima che il perdurare del silenzio torni a soffocare la speranza di una trattativa rapida e immediata.
E intanto le mie energie si convogliano in un’opera titanica: alleggerirmi di un mare di oggetti, accumulati lungo la mia vita e non solo.
L’intenzione è di andare ad abitare in affitto in un appartamento ammobiliato e di portare con me solo lo stretto necessario, in un fantastico viaggio in automobile dapprima di tre giorni per duemila chilometri, lungo le coste di Francia e Spagna, poi, tagliando il continente, fino alla costa oceanica, per imbarcarmi quindi in una traversata di altri due giorni in traghetto.
Dunque, nell’appartamento e soprattutto nella parte del doppio garage adibita a cantina, bisogna mettere mano a una quantità esorbitante di cose del passato, ampiamente sopravvissute al trasloco di quindici anni e mezzo fa, destinandole, alternativamente, al vicino mercato del riuso, ovvero alla discarica comunale, ovvero alla raccolta differenziata dei rifiuti.
A fronte dei sedimenti storici delle tante cose, accumulate in questa nostra opulenta società dei consumi e serbate per lunghi decenni con sonnolenta e distratta cura, che vado a eliminare, mi rendo conto del valore in qualche modo epocale di tale operazione, soltanto anticipata rispetto a quanto dovrebbero fare altre mani il giorno della mia finale dipartita di scena, che, in questa scala temporale, non si annuncerà, in ogni caso, poi così lontana da questo presente.
E se mi sento oppresso dalla complessità dell’operazione (considerando anche il problema aperto relativo all’arredamento interno, che in buona parte ho conservato dalle abitazioni precedenti), allo stesso tempo avverto un senso di potenziale leggerezza e rinnovamento, decisamente più forte della nostalgia.
È arrivato, improvviso, inatteso, il momento di liberare sia l’ambiente che la mia vita di tutti i segni del passato.
Ho trovato anche una raccolta di foto ricordo, quasi tutte in bianco e nero, quasi tutte ereditate dai genitori e dai nonni.
Alcune di esse, datate di oltre un secolo, gonfie di suggestioni remotissime, relative a persone non sempre note, hanno comunque dovuto compiere, in mancanza di nostri nuovi eredi familiari, il loro ultimo viaggio, fino al contenitore azzurro della raccolta differenziata della carta.
Ho voluto salvarne solo tre, che si affiancheranno a quella che conservo in un quadretto e che mi ritrae all’età di quattro anni alla spiaggia, accanto a mio fratello di nove.
Oltre a quella, non avevo mai desiderato esporre quella dei miei genitori, protagonisti della mia infanzia sbagliata.
Ma questa volta l’amore e la pietà per loro hanno prevalso.
Le tre foto che ho salvato sono rispettivamente un ritratto giovanile della mamma, uno del babbo e uno di quella straordinaria coppia di coniugi (detto con assoluta sincerità), che, prima della scomparsa prematura di lei, essi seppero essere costantemente.
La fotografia li vede camminare, con tranquilla baldanza, giovani sposi nel centro di Bologna.
In quell’atmosfera di rinascita (che tanto dolorosamente dolce suona oggi…) del dopoguerra.
Ecco a voi l’immagine. Guardatela, vi prego, con cura.
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