
La mia carriera informatica, durata dal 1980 al 2003, mi portò progressivamente ad allontanarmi da un ruolo prevalentemente tecnico molto congeniale, che significa lavorare in beata solitudine alla soluzione di problemi, a uno con una componente commerciale molto più forte, che significa attività coordinata e molto più esposta all’arroganza di clienti e concorrenti.
Pagai cara sulla mia pelle questa svolta, molto in antitesi col mio carattere sensibile e piuttosto timido, ma non mi ci opposi, anzi la favorii, a motivo degli importanti ritorni economici che comportò.
Le banche, clienti finali dell’attività, erano propense a sborsare cifre esorbitanti per il rinnovamento delle loro procedure automatizzate.
Strano a dirsi quando si parla di quattrini, la mia fu dunque una scelta essenzialmente etica, di non potermi permettere di perdere quel treno.
Tale sviluppo, affrontato con la mentalità di resistere finché ci fossi riuscito, in realtà durò diversi anni, permettendomi così di mettere da parte un gruzzolo di tutto rispetto che poi, a fine corsa, potei investire nei ponderosi acquisti di una licenza di taxi e di un bell’appartamento al limitare fra città metropolitana e campagna bolognese, dove potei andare ad abitare dopo lunghissimi anni di trasferta continuativa con base, solo nei fine settimana, nella vecchia casa in affitto nel centro storico.
Venduta la licenza del taxi dopo tredici anni di attività e poi, dopo la scelta di vendere anche la casa per trasferirmi qui a Tenerife, mi trovai da investire quel mio storico importante gruzzolo.
Fra scelte azzeccate e altre meno, sempre più mi lasciai conquistare dal mondo delle criptovalute ed ebbi l’immensa fortuna di imbattermi in un gruppo di giovani particolarmente seri, preparati, acuti nell’inventiva di prodotti d’investimento remunerativi, autofinanziati grazie a un’attività collettiva, continuativa, strutturata e praticamente infallibile di trading (cioè compravendita di cripto), basata su sofisticate teorie che vengono anche insegnate, e infine, ciò che più conta, non privi a loro volta di un approccio etico e umano: sto parlando di Metatron Ecosystem (vedi sito web e canale telegram).
Fui guidato all’investimento in portafogli “decentralizzati”, cioè accessibili senza intermediari, in basi a chiavi private.
Si tratta di un criterio di grande responsabilità e attenzione a fondamentali misure di sicurezza.
Seguendo tali loro indicazioni, comprai un piccolo computer da dedicare esclusivamente a questo e, in un primo tempo, effettuai gli accessi al mio portafoglio in connessione via cavo con il router anziché in wi-fi.
Non posso rinfacciare al capo storico di Metatron, Luca Serleto, di non aver spiegato che le reti wi-fi sono vulnerabili anche da remoto; fatto sta tuttavia che restai ahimè nella convinzione che il cavetto servisse solo a proteggersi da eventuali attacchi dei vicini, cosa che dopo un po’ di tempo mi fece propendere per il wi-fi, molto più comodo in base all’arredamento di casa.
Da questo mio errore ebbe inizio, sul finire di gennaio, un quadrimestre in cui la sorte sembra divertirsi contro di te come il gatto col topo.
Ho deciso di risvegliare il mio dormiente blog per raccontarne le vicende principali in un seguito di articoli, di cui questo è il primo, per poi dedicarne uno finale ad innalzare il racconto delle disavventure verso considerazioni metafisiche.
Dunque una mattina, nell’accedere al mio portafoglio Metatron, lo trovo completamente svuotato.
Si può immaginare la violenza del trauma.
Chiamo subito il servizio di consulenza della società: a differenza di altre volte, la gravità del problema fa sì che ottenga in brevissimo tempo un contatto telefonico diretto con Andrea Bertocchi, il giovane amministratore delegato, e poi con lo stesso fondatore Luca.
Ricordo ancora la mia voce desolata nel manifestare l’idea dell’inesorabilità dell’accaduto. E invece loro mi rincuorano: non temere, le cripto in rete Metatron siamo in grado di bloccarle e ti verranno restituite. Per quanto riguarda gli USDT che avevi su rete esterna, invece non possiamo prometterti niente.
Enorme sospiro di sollievo: gli USDT erano in percentuale abbastanza trascurabile. E in effetti, le indagini di Andrea confermeranno che questi ultimi avevano preso il volo.
Mi indicarono di resettare completamente il computer dedicato e per il futuro di collegarmici sempre solo via cavo.
Me l’ero comunque cavata molto a buon mercato ma, mi pesa molto ammetterlo, di lì a qualche giorno feci un nuovo errore.
Sul telefono, collegato in wi-fi abitualmente (e quasi necessariamente, vista la cattiva connessione da casa con le reti pubbliche), una mattina controllai i miei bitcoin, visibili esclusivamente attraverso l’applicazione mobile di Metatron. Erano decisamente di più degli USDT. E li vidi praticamente sparire sotto i miei occhi.
Anche in questo caso, Andrea ne avrebbe cercato le tracce, invano.
Cercai di farmene una ragione: percentualmente, comunque, la parte del mio capitale complessivo che mi era stata sottratta, al di là del bruttissimo colpo e se consideriamo anche i miei altri investimenti (metalli preziosi in custodia presso un’azienda svizzera e altre cripto in un ambiente centralizzato e molto ben protetto) si era limitata a livelli abbastanza accettabili.
Mi toccò aspettare un tempo quasi infinito, prima di poter vedere mantenute le promesse di restituzione, perché l’amico italiano a cui mi rivolsi per resettare il piccolo computer era indaffarato con la casa sottosopra. Ma, dopo diverse settimane, finalmente poté dedicarsi alla ripulitura e, su sua indicazione, all’installazione del sistema operativo Fedora Linux, non difficile da apprendere e fondamentalmente più sicuro.
Nel frattempo Andrea mi aveva cercato, per dirmi che avevano intercettato l’haker nel momento in cui tentava di tramutare in un bonifico le cripto dalla rete Metatron, appunto quelle bloccate che mi aveva sottratto.
Si tratta di un indonesiano, mi disse, smentendo così la mia idea che avesse operato da Milano, cosa che il suo indirizzo I.P. sembrava indicare e che non poteva fugare eventuali sospetti di una talpa all’interno della società.
Ora, soggiunse, le indagini passano alla polizia locale.
Il trascorrere di quelle settimane mi vede cercare di soffocare, con un atto di fiducia, quel po’ di ansia di non poter avere sotto il mio controllo le cripto salvate.
Ma quando finalmente posso tornare a operare, ad aprire un nuovo portafoglio e a chiedere che vi vengano inviate, il sollievo nel ritrovarle integralmente è grande.
Intanto mi ero reso conto di dove l’haker avesse potuto reperire la chiave privata (una sequenza di dodici brevi parole inglesi, la cosiddetta “seed phrase”) per accedere al mio portafogli: sicuramente nell’allegato di posta di una casella, che tenevo a scopo esclusivo di salvataggio dell’archivio di tutte le mie password (in prima battuta memorizzato su un paio di chiavette USB, dunque esterne al computer principale).
Con l’errata convinzione che il computer dedicato alle cripto non corresse alcun rischio, purtroppo quella casella, e proprio quella mail, dovevano essere in bella evidenza, ovvero, a ben pensarci, l’archivio doveva esser stato intercettato in occasione di un nuovo invio a quella stessa casella di posta dedicata.
Dunque mi si era reso necessario cambiare urgentemente la password anche a tutti i siti con informazioni sensibili e private, diventati pericolosamente accessibili al criminale asiatico.
Una volta modificato l’archivio delle password, l’avevo salvato nuovamente su quella casella, con una nuova password robusta.
Le chiavette si possono perdere o rovinare; una casella di posta, invece, è sempre raggiungibile. Questa la logica del mio rinnovato salvataggio.
Modificando anche la password di rete wi-fi, e comunque collegando ora il computer delle cripto esclusivamente via cavo, mi sentivo nuovamente al riparo, come poi il passar dei giorni sembrò confermare.
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