In fondo alla coscienza

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Riprendo il discorso nel tardo pomeriggio di questa domenica di Pasqua.

Alla mia frequentazione quotidiana delle fonti d’informazione libere dalla propaganda che accompagna mostruosamente il declino del nostro mondo occidentale, e che ho elencato nell’articolo precedente, non è corrisposto, in questi primi mesi della mia nuova vita a Tenerife, un ulteriore impegno di divulgazione, qui nel blog, della verità calpestata dalla tivù, a danno di troppe inconsapevoli vittime, anche dotate d’un buon livello di cultura, intelligenza e spirito critico.
Me ne dispiace, così come mi dispiace l’impressione di aver interrotto la comunicazione con gli amici che, con maggiore o minore curiosità, leggono i miei scritti.

Evidentemente sto pagando il prezzo d’un cambiamento radicale di vita e abitudini in età non certo giovanile, nonché dei vari stressanti ostacoli da superare per ottenere lo status ufficiale di emigrato, con obblighi e vantaggi relativi.

In questo nuovo articolo, tuttavia, non riprenderò i fili della complessa realtà sociale che si sta rapidamente trasformando sotto i nostri piedi, con annesse minacce politiche, finanziarie, ambientali e termonucleari, limitandomi a caldeggiare nuovamente la frequentazione di quelle stesse fonti indicate la volta scorsa.
Affronterò invece, come meglio ne sia capace, argomenti ancora più complessi: niente meno che l’eternità della nostra coscienza e il libero arbitrio.

Prima di cominciare a scrivere queste note, ho cercato invano in rete un lungo articolo di cui avevo una copia stampata ahimè andata smarrita nel trasferimento.
Sintetizzando e citando il lavoro di alcuni studiosi, vi si leggeva, in modo a mio parere molto convincente, una versione alternativa della vita di Gesù prima e dopo il periodo di predicazione in Palestina.
La morte sulla croce (peraltro messa più volte in discussione dal numero esiguo di ore passatevi) sarebbe stata evitata dai discepoli a lui più vicini, con l’avvenuta complicità delle guardie, sottraendo il suo corpo e poi curandolo a base d’una ingente quantità di erbe medicamentose.
Nei suoi tempi giovanili, e poi soprattutto in lunghi anni dopo il supplizio, avrebbe viaggiato in oriente, dapprima formandosi e, poi, lasciando tracce importanti dei suoi peregrinaggi, che si possono attribuire a un certo santo di nome Issa, come sostenne l’esploratore russo Nicolas Notovitch nel suo manoscritto “Vita di San Issa“.

La lettura di quell’articolo, comunque, ha avuto per me solo un significato di possibile quadratura del cerchio, dato che già da lungo tempo avevo abbandonato la fede cattolica che mi aveva accompagnato, sia pure con irrisolti e penosi conflitti, fino all’età adulta.
I miei anni successivi, com’è facile immaginare, sono stati segnati da un cupo e razionale materialismo scientista, finché poi, in tempi più recenti, ho avuto la fortuna di imbattermi nel pensiero di un grandissimo filosofo italiano, morto nel gennaio 2020: Emanuele Severino.

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L’ho fatto tramite la divulgazione da parte di un suo giovane appassionato studioso, Angelo Santini, molto attivo in rete.
Secondo Severino, il dinamismo e la caducità degli eventi sarebbero illusori, non trattandosi altro che di apparire e scomparire in stretta sequenza di entità tutte eterne. Non mancano, nei suoi scritti, anche visioni profetiche del cammino di progressiva ed eterna gloria che ci aspetterebbe dopo la permanenza terrena.
L’impressionante acutezza analitica delle sue argomentazioni, di cui mi è bastato qualche assaggio, mi ha convinto a ritrovare una prospettiva metafisica foriera di speranza e gioia.

Ma il mio cammino non si è fermato qui, perché poi ha incontrato il pensiero di un altro grande maestro, fine conoscitore sia del pensiero di matrice orientale (in particolare delle diverse scuole di spiritualità buddista), sia della filosofia occidentale.
Franco Bertossa, sessantottenne, di famiglia croata istriana, si trasferì a Bologna da bambino, dove da alcuni decenni conduce un centro di studi e meditazione chiamato ASIA.

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Ne ho scoperto l’esistenza alla fine di un provvidenziale cineforum, in cui prese la parola, poi la curiosità mi ha spinto a ritrovarlo su Facebook, dove continua a pubblicare i suoi appunti con frequenza praticamente quotidiana.
Nonostante la vicinanza geografica nei miei ultimissimi anni italiani, non ho mai avuto l’impulso a conoscerlo e frequentarlo di persona, benché lui insegni che il contatto “occhi negli occhi” sia fondamentale per la trasmissione della sapienza più profonda.
Ma continuo a seguire con passione i suoi interventi su Facebook, che pure sono mille variazioni su pochi fondamentali temi da lui sostenuti, fra l’altro in parziale ma decisivo contrasto con Severino, di cui pure fu studioso ed amico cordiale.

Spesso cita l’episodio chiave della sua formazione, intorno ai trent’anni: un pomeriggio, dopo aver osservato la copertina di un disco a trentatré giri presso il famoso negozio “Borsari e Sarti” nel centro città, cadde in un abisso di dubbio e al contempo di illuminazione, durato l’intera notte seguente.
La traduzione in termini razionali di quel processo è l’aver affrontato la contraddizione fra il nulla e l’esistente.
Tutto deriva, in maniera logicamente impossibile, dal nulla, perché qualsiasi dio o elemento originario dovrebbe a sua volta fare i conti con la propria origine, in un regresso all’infinito. Ma il nulla non esiste per definizione.
Dunque, usando le sue parole, siamo “il miracolo di nessun dio”.

A differenza del pensiero occidentale (salvo alcuni greci antichi e il moderno filosofo Heidegger), che è strettamente e univocamente razionale e consequenziale, il pensiero orientale riesce ad ammettere la compresenza di verità contraddittorie.
L’accettazione profonda di tale contraddizione porta, secondo l’esperienza di Bertossa, a uno stato di infinita gratitudine.
Particolari tecniche di meditazione, da lui coltivate e insegnate, conducono ai livelli ultimi e più profondi della coscienza, dove si ritrova il nocciolo di quella sua esperienza originaria di illuminazione e si avverte inequivocabilmente il “sapore” del sè, nella sua immortalità.

Fra i suoi interventi recenti ne ho trascritto uno, che mi è sembrato più completo degli altri; lo potete leggere cliccando qui .

Un altro tema a lui caro e foriero di accese discussioni è la mancanza del libero arbitrio.
Bertossa c’insegna come “ci troviamo” sempre in un pensiero e financo in una convinzione e scelta, che preesiste alla nostra ingannevole volontà, così come un treno che esce da una galleria ci appare “già uscito” e mai veramente nell’atto stesso di uscire.
Il motore dell’esistenza che pilota la storia dei nostri pensieri è la ricerca della verità, l’unica variabile che non può essere scalfita da altre.

Non so se io sia stato capace di rendere qui i suoi insegnamenti e non so se oserò inviargli questo scritto: al momento, francamente, ne dubito.
Però, se lo facessi, sarei tanto curioso di approfondire dalle sue parole il tema dell’errore e del dolore, tanto attuali e brucianti sulla scena del mondo e della vita di ciascuno di noi.
E altrettanto vorrei mettere in discussione un altro tema da lui sostenuto: quello della molteplicità di vite che deve attraversare ogni coscienza.

Vorrei tanto che non fosse vero e che il mio faticoso cammino fin qui, e fino al momento in cui terminerà, potesse bastare per l’eternità…
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La verità sulla guerra

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In quasi due mesi della mia nuova vita a Tenerife in questo bell’appartamentino, non ci crederete, non ho ancora acceso una sola volta la tivù e certo non soltanto per le difficoltà della lingua, ché anzi potrebbe essere un esercizio utile.

In compenso, com’è ormai mia antica abitudine, continuo a dedicare quotidianamente del tempo all’ascolto delle mie voci preferite nel campo dell’informazione libera in rete, in particolare dai siti: “Il vaso di Pandora” di Carlo Savegnago, “Visione-tv” di Francesco Toscano, “Luogocomune” di Massimo Mazzucco, “100 giorni da leoni” di Riccardo Rocchesso e “Mazzoni news” di Roberto Mazzoni.

Pochi giorni fa lo stesso Roberto Mazzoni, giornalista italiano che vive in Florida, ha riportato, curandone la traduzione simultanea, il video di un’intervista al colonnello Douglas Macgregor, un militare che ha lavorato all’interno del Pentagono durante la presidenza di Donald Trump.

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Sono stato per così dire folgorato da questo documento: sembra quasi assurdo che un quadro sulla guerra in Ucraina estremamente realistico, preciso e lontano dalla propaganda anti-Putin, a cui sono assuefatte tutte le fonti d’informazione, ma anche gli show televisivi, primo fra tutti il festival di Sanremo, arrivi proprio dagli States e addirittura da un militare di carriera, che peraltro mostra nel parlare doti accattivanti di tranquillità e ponderatezza.
Quello che passerà alla storia, relativamente a questi ultimi drammatici e inquietanti sviluppi, ma anche a come sono maturati, è tutto nelle sue parole, ne sono più che certo.
Nel suggerirne caldamente l’ascolto, ho l’occasione io stesso di dare il mio piccolo contributo alla verità, calpestata come non mai dalla macchina della propaganda di regime che, purtroppo, miete anche tante vittime dotate d’intelligenza e spirito critico.

Potete ascoltarlo cliccando qui e poi posizionandovi al minuto 14’58” (e -44’36” dalla fine) del video, dove comincia effettivamente tale intervista, se volete evitare la parte meno interessante dedicata da Mazzoni al tragicomico pallone cinese abbattuto in territorio americano.

Qualcosa, comunque, si sta muovendo anche dalle nostre parti, perché inevitabilmente la realtà apre le prime crepe rispetto alle narrazioni interessate e pervasive provenienti dai quadri di comando occidentali: voglio alludere, in particolare, a un breve articolo di Marco Travaglio che affronta finalmente la questione della guerra con una sana dose di realismo. Lo potete leggere cliccando qui.

Alimentiamo la speranza che il buon senso prevalga molto presto, sul cinismo cieco e disperato di chi non vuole ammettere di aver sbagliato i propri calcoli assassini di dominio.
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Il carnevale di Santa Cruz

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Ieri, martedì grasso, ho assistito con mio fratello alla tradizionale sfilata carnevalesca di Santa Cruz di Tenerife, un corteo di gruppi in coloratissimi costumi, che sembrava davvero infinito.
La grandissima importanza popolare della manifestazione è testimoniata dalla quantità di protagonisti d’ogni età, dalle tante coreografie musicate, ma anche dalla cura che richiede la predisposizione di quell’enorme sfoggio di abbigliamenti utili solo per un giorno.
A differenza delle sfilate carnevalesche di Viareggio e di tante altre città italiane, qui l’attenzione non è catturata da carri allegorici più o meno imponenti, ma semplicemente dai gruppi che sfilano, abbigliati a tema e sincronizzati nel fare musica e danzare (tante, tante percussioni e ritmi sudamericani); fanno eccezione i carri che portano, singolarmente, la Regina del Carnevale e le altre dame, tutte contornate da abbigliamenti di misure e fogge strabilianti.

L’occasione si prestava a un mio nuovo reportage fotografico; ancora una volta, dunque, pubblico un articolo a prevalente carattere di immagini.
Le ho suddivise in quattro capitoli: Gruppi e costumi, Le Dame, I protagonisti, Il pubblico.

1- Gruppi e costumi: una breve carrellata sul colpo d’occhio fornito da alcuni fra i tanti gruppi del corteo.

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2 – La Regina e le altre dame: dopo il carro della Regina di questa edizione (che ha aperto e chiuso l’interminabile flusso), di tanto in tanto sono comparse le altre damigelle d’onore.

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3 – I protagonisti

Credo che questo sia il capitolo che meglio esprima la partecipazione gioiosa della cittadinanza protagonista della sfilata.
Per un giorno è stato bello lasciarsi coinvolgere, protagonisti e pubblico, dalla festa e dall’allegria, lasciando da parte le minacce del recente passato e del prossimo futuro.
L’aspetto rivoluzionario del carnevale, da tempi molto remoti, in fondo non è altro che questo.

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4 – E infine uno sguardo sul pubblico multietnico (ma i tedeschi, in questa stagione, sono preponderanti).

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Comunque oltre ai tedeschi, per finire, c’erano anche due “fratelli d’Italia” diversamente giovani, con maschera e mascherina d’ordinanza (quest’ultima, ovviamente, indossata con intento sarcastico, anche se temo che la cosa non a tutti fosse evidente…).

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